Per non dimenticare…
A cura di Rosalda Schillaci
Cosa può insegnarci il passato? Perché non è tempo perduto, quando lo rinverdiamo con gesti frequentati “contro le parole dell’odio”.
Occorre agire, insorgere per essere sentinelle a guardia di parole, perché dalle semplici parole – il passo è breve – si passa ai fatti violenti. È una sfida continua, vigilare e scovare ogni regola infranta e declinata all’odio e alla discriminazione. Ritornare al buon senso, alle buone parole, al superamento di conflitti, così comuni ieri e anche oggi. Occorre superare silenzi, chiedersi cosa siano nazismo e fascismo, ancora oggi, quando accadono efferati gesti di discriminazione, di violenza verbale, di comportamenti insensati. Con voce pacata Liliana Segre – sopravvissuta ai campi di sterminio – ci invita alla riflessione e alla consapevolezza.
Come non vedere i nodi tracciati da complicità radicate nel sistema politico dell’odio? Una schiera di criminali non capitano come accidenti inferti da calamità naturali: sono frutto di scelte di cittadini liberi e consapevoli, in qualunque epoca vissuta.
Corre la necessità di coltivare relazioni di rispetto e accettazione. Culle di differenze che non mettano radici nella paura atavica superata illudendosi di essere migliori di altri, fonte di supremazia arbitraria, simbolo innalzato alla prevaricazione, altare dal cuore di pietra, verticali pensieri che dall’alto portano dentro un abisso. Perché allora, sopra colline e alture si costruiranno – in spazi aperti – campi recintati di crudeltà, roccaforti che riportano a un medioevo senza atti di fede nell’uomo. Adottare l’indifferenza, reclamare un rapporto predominante sulle religioni, dimenticando la gioia della bellezza nella liturgia del rispetto. Quando non si sceglie si rinuncia alla volontà di schierarsi verso valori che mai dovrebbero essere messi in discussione. Si rimane sospesi in un limbo, ci si adegua al peggio, si cresce figli di un Epoché improntata all’afasia.
Piani operativi di complici nel testimoniare il lato oscuro si nascondono nelle pieghe della democrazia. Quanti hanno accolto il nazismo nel silenzio o nell’insofferenza? Quando si sono eletti – nell’indifferenza generale – giudici sommari con in mano codici scritti da alibi, capri espiatori, di ogni male. Quali fatti sono accaduti nel “divenire del mondo” negli anni trenta del secolo trascorso. Chi ha costruito forni crematori? Chi si è trasformato in boia? Non sono entità astratte, ma uomini in carne e ossa. L’Olocausto – “sacrificio tramite il fuoco” – la persecuzione e lo sterminio sistematico attuati con burocratica organizzazione dal regime Nazista quando raggiunse il potere in Germania nel gennaio del 1933.
Il passato diventa chiaro solo se si conosce, solo se non si seppellisce insieme alle vittime di distruzioni di massa. Chi ha vestito divise dietro le quali si è nascosto per fare carriera, per dare sfogo agli istinti più brutali? Uomini che sono stati elementi di punta nell’eliminazioni di “zavorre, bocche inutili” e qui ritorna la furia del giusto significato di parole, giustificazione di un lungo elenco di massacri di massa. Orrore giustificato e impunito. E allora occorre non dimenticare perché purtroppo i testimoni muoiono. È necessario allora combattere contro gesti inerti che sembrano mai trovare tempo per agire e condannare chi si è macchiato di furia crudele, sistematica.
Credendosi una “razza superiore” i tedeschi sterminarono diciassette milioni di: Ebrei, Rom (Zingari), disabili (“Programma Eutanasia”), popolazioni Slave (Polacchi, Russi, e altri), Comunisti, Socialisti, Testimoni di Geova, Omosessuali. Inedia, malattia, mancanza di cure, maltrattamenti, deportazioni, condizioni disumane in cui uomini, donne, bambini furono costretti a vivere, lavorare, morire.
È importante nel giorno che commemora il 27 gennaio del 1945, quando i cancelli di Auschwitz furono abbattuti, rileggere le parole di Jean-Luc Godard “dimenticare lo sterminio fa parte dello sterminio”.
Come ricavare un senso da eventi senza senso? Abbiamo creato una barriera, una cecità, una sordità per un orrore che ha spazzato per milioni di persone il legittimo bisogno di felicità.
Come capire il patire di fronte a eventi di devastazione di annullamento della natura umana? Quali parole usare senza ricavarne un senso di inadeguatezza. Non esistono parole per misurare la profondità del dolore di chi è diventato semplice carne in mano a dei carnefici. Potremo scavare mille anni dentro di noi senza trovare una goccia di lato oscuro di tante “vite offese”.
Come chiamare vita quella di chi ha vissuto in campi di concentramento? Luoghi costruiti di nulla dove si è reso cenere l’uomo. Si sono perse coordinate, meridiani, centri si è spazzato per sempre il concetto di umanità.
Come descrivere il brivido lungo la schiena diventato peso presente, costante, di tanta gente? Un sobbalzare di giorno e di notte dimenticando i cicli della vita. Con un lungo inverno scolpito da rudi mani in cuori pulsanti. Grondava il sangue si spargeva a terra, veniva calpestato con stivali e tanta cattiveria. Non si chiedeva loro chi si fosse stato, né si offriva futuro a chi era appena nato. A centinaia, nascondendo l’uno, li si mandava in cielo sotto forma di cenere, di fumo, con un’ultima domanda sussurrata come una preghiera, inascoltata in cielo e in terra, che mai ha ricevuto e riceverà risposta: perché? Sono rimasti così aperti tanti conti. Bambini, giovani, vecchi, uomini o donne senza alcuna distinzione hanno perso il senso della normalità. Il tempo è diventato un orologio con le lancette ferme. Si sono scavate fosse a centinaia, per ossa senza alcuna carne, per numeri tatuati su veli di pelle. Non più chiamati uomini, ma cadaveri a cui non concedere nessun rispetto nessuna dignità.
Se dopo settanta anni c’è chi osa mettere in dubbio tutto questo, cosa crederanno i nostri figli a cui, a differenza dei nostri genitori, non abbiamo raccontato mai di guerra? Noi che sposiamo come credo la necessità di chiudere gli occhi, come possiamo provare a recuperare le radici profonde di ciò che siamo? Usiamo e abusiamo di parole per descrivere le piccole miserie del nostro banale quotidiano, ci poniamo al centro del mondo e facciamo girare intorno a noi, come piccoli, satelliti, egoismo e presunzione. Chiediamo conto delle nostre lacrime, proteggiamo noi stessi e la vita di chi ci è caro, incuranti di chi ci muore accanto.
Oggi come ieri … li abbiamo uccisi e continuiamo a farlo; come nuove belve, pronte a dimenticare o perfino a negare fatti assurdi che sono storia. Eventi dalle emozioni profondissime, vite avvelenate, distrutte da barbarie, di chi morì e di chi si sentì in colpa per essere sopravvissuto.
Un genocidio ovvero: la metodica distruzione attraverso lo sterminio di individui e l’annullamento di valori culturali, un completo disfacimento dell’essere umano, bruciandone le carni e persino la memoria. Ancora una volta riporto le parole che ho scritto su Primo Levi nel numero di Unicun 2019 pubblicato sempre su Nuove Edizioni Bohemien: “ […] Sigillando l’essenziale di una matita che schizza e delinea nuove forze stranianti che egli ha paragonato ai buchi neri. “Treblinka e Chelmno non fornivano lavoro, non erano campi di concentramento ma buchi neri destinati a uomini a donne e bambini colpevoli solo di essere ebrei e da cui nessuno è uscito vivo”. I buchi neri sono una metafora perfetta per Levi: non emettono luce, anzi la inghiottono negando qualsiasi informazione diretta su di sé. Anche l’ora della liberazione diventa grave il 27 gennaio del 1945. Libera da fosse ormai piene. Levi diventa uno dei 20 sopravvissuti dei 650 ebrei italiani arrivati con lui al campo. Da lì nel 1947 inizia un libro che gli cresce tra le mani “Se questo è un uomo” e poi “La tregua”.”.
Sono tornati in pochi e quei pochissimi che restano, ormai ci stanno lasciando. Testimonianze preziose di chi non ha visto un barlume di umanità negli occhi di spietati aguzzini ma feriti ancora da chi nega e insulta. Si spengono uno ad uno le voci, le lacrime, di chi racconta i passi, i luoghi, le strade, i rifugi. Li immagino ancora increduli, smarriti, con fantasmi che non li hanno mai abbandonati. Vorrei stilare non un arido elenco ma un ricordo lento: voce per voce, viso per viso, sorriso per sorriso. Sì, lento sia il suono nome per nome e ci scavi infinita nostalgia.
Occorre scovare, raccontare e sconfiggere; egoismo, indifferenza e soprattutto “ignoranza volontaria”. Nessun verbo affermi che non siamo tutti uguali e che alcuni hanno diritti e altri no! Per non cedere all’affanno del tempo, la memoria all’oblio, e perché non esistano più Lager, le possibili vie alla salvazione come squarcio di dignità umana e resistenza nel fango, come riflessioni etiche, fanno leva al distillato di ragione, cultura e memoria. Oggi e per i giorni che seguiranno dare il giusto peso alle parole. Mai più l’indicibile trovi terreno fertile nell’odio.
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