A cura del Prof. Alfonso Sciacca
Cristina Torrisi è una scrittrice che, a dispetto della sua giovane età, vanta al suo attivo parecchie pubblicazioni, di buona fattura. È estroversa, creativa, sensibile: possiede, pertanto, le doti essenziali, di base, che conducono, prima o dopo, all’esito della scrittura, come accade al fiume che, dopo tanto scorrere, inesorabilmente andrà a sfociare nell’immensita’ dell’acqua marina dove s’acquieta. A lei, questo esito, è giunto qualche anno addietro: precocemente, potremmo dire. Da quel punto, che è stato un punto di partenza piuttosto che un traguardo finale, ha avuto inizio un percorso creativo che le ha permesso di evidenziare e via via perfezionare le sue qualità compositive. Il suo pregio di maggiore evidenza è il rapporto con la scrittura, senza il quale, in genere, è destinata al facile ed inevitabile naufragio ogni velleitaria ambizione letteraria. È qui, in questo rapporto con la lingua, che si gioca il destino degli scrittori. Calvino nelle sue memorabili Lezioni americane parlava di levità, di leggerezza. Ed aveva perfettamente ragione, perché la scrittura, quando non sia né lieve né leggera, è come un macigno che ingombra e stordisce. Cristina stabilisce un rapporto ludico con la sua pagina, ludico e perciò gioioso e giocoso, e perciò lieve. Il senso della sua leggerezza è tutto circoscritto dentro il cerchio di un’armoniosa gioiosità. Nessuno pensi, tuttavia, che la calviniana leggerezza sia una dote innata. Al contrario, essa richiede un lungo percorso di esercitazione e di lima costante. Cristina Torrisi riesce ad utilizzare la struttura della lingua, sia nell’aspetto propriamente lessicale e sia in quello che riguarda l’organizzazione complessiva dell’asse sintagmatico o paradigmatico, con lo scopo di pervenire ad una rarefazione del pensiero, ad una decantazione da ogni ingombro inutile e ripetuto. L’occhio e la mente del lettore scorrono veloci lungo le righe della sua pagina, si mescolano con i significanti, e se vi si soffermano spesso è perché desiderano, indugiando per meglio comprendere le sfumature, i sottintesi, i rimandi analogici, le pause. Perché anch’esse, le pause, hanno il loro ruolo, riuscendo a tenere sospeso il discorso e di conseguenza a catturare l’attenzione di chi legge. L’esercizio ludico della scrittura è, fra le tante modalità, il mezzo più efficace per riscrivere la vita, la propria vita; perché ogni scrittore è inevitabile che ripensi alla propria vita anche quando vuol dare l’impressione di non pensarci affatto. Nonostante siano trascorsi tanti secoli, durante i quali l’inventiva umana si è propria sbizzarrita e divertita inventando o reinventando nuove forme e straordinarie poetiche, l’arte, per la sua maggior parte, resta pur sempre “imitazione”, mimesi della vita. È un rapporto che mai potrà scindersi, perché l’arte non ha senso se non riferita lla vita e questa, la vita, risulta faticosa ed invivibile e sterile se non è produttiva di arte. La leggerezza della scrittura è infine leggerezza di vita con la quale la scrittura s’impegna a giocare. Un gioco raffinato e di arguta intelligenza. Un gioco serio, tuttavia. Paradossalmente serio. Il lettore di Cristina, leggendo questo suo romanzo, avrà modo di comprendere ed apprezzare quale e quanto importante sia il gioco letterario che l’autrice ingaggia con la vita in genere, e con quella sua in particolare. Cristina, dunque, in questa sua ultima fatica letteraria si industria, ed in buona parte vi riesce, a reiventare la vita attraverso la struttura di un romanzo. La trama, i numerosi protagonisti, il paesaggio, il contesto storico che fa da cornice alla narrazione, diventano paradigmi universali che nella loro unicità rimandano alla molteplicità degli eventi umani. L’autrice è sempre tra di loro. Il suo punto di vita non è mai lontano o distante. Né essa pretende di assumere un atteggiamento didascalico o sapienziale. Niente affatto. Essa è sempre lì dove si svolge l’azione, vigile ed attenta a notare ogni sfumatura, ad evidenziarla con precise notazioni, a scrutare in viso i suoi personaggi per coglierne perfino gli ammiccamenti, i riflessi nervosi, i corrugamenti del volto o delle palpebre, le asprezze o le delicatezze di uno sguardo innamorato o schivo, o arrogante e meschino. Si aggira, essa, nei salotti della buona società piemontese, tra i mobili degli antenati, le suppellettili di gozzaniana memoria, sfiorando con il suo passo felpato i pavimenti tirati a lucido o i tappeti che li ricoprono. È una presenza discreta, ma vigile; silenziosa ma indagatrice. Ascolta il dialogo fitto dei suoi personaggi, le confidenze dei giovani, le amarezze degli anziani, l’espressione contenuta del loro dolore. Annota e registra le intemperanze degli adolescenti, gli impeti e i sussulti del loro animo, la fallacia dei perfidi, l’inganno delle lusinghe. La ritroviamo perfino nei luoghi del mistero e dei misfatti, coraggiosa ed intrepida, se non addirittura temeraria. Ed il lettore sta con lei e leggendo apprende anch’egli i risvolti del racconto, ascolta, riflette. Si tratta di uno spaccato della piccola Italia postunitaria, dove serpeggiano fermenti di una vita apparentemente nuova che tuttavia lasciano inalterate le forme di vita ottocentesca ancora piena di pregiudizi e di orgogliose presunzioni. L’ambiente geografico è quello piemontese, così vario, fra città e campagna, fra luoghi di incontro e eremi di solitudine perversa. Ma al di là dell’ambiente geografico o storico la trama del romanzo pretende rimandare alla lotta eterna tra il bene e il male. Questi due mondi sono nettamente divisi tra loro, c’ è un confine invalicabile che li separa. Al centro di questa atavica lotta c’ è la protagonista, ingenua e sognatrice, che conosce il bene ma anela al male, che lotta disperatamente nel suo animo e finisce con il soccombere dinanzi alle perverse lusinghe del male. Cristina utilizza il luogo comune delle favole antiche per presentarci, con drammatica metafora, la situazione attuale di tanti giovani che si lasciano suadere dal male giungendo a rinnegare gli affetti più veri e genuini. Quando si incontra un libro è come incontrare una persona. A mano a mano che ne leggiamo il testo si disvela il carattere, la sensibilità e il modo di concepire il mondo del suo autore. Perfino la trama, o forse in taluni casi soprattutto la trama, è la chiave di lettura che conduce alla rivelazione di tutto ciò. Ci sorprende fin dall’inizio che all’autrice interessi non tanto raccontare una storia di eventi (una delle tante storie che accadono e accadranno in questo nostro mondo) quanto piuttosto il modo che segna lo sviluppo dei fatti, la modalità del loro evolversi e del loro reciproco intrecciarsi. Non si ferma all’apparente superficie degli eventi in sé, perché il suo sguardo indagatore — e le forme della scrittura che gli si accompagna — vogliono andare oltre per capire come quegli eventi siano accaduti, quali le cause, quale l’intreccio che li ha determinati. Si direbbe che Cristina dimostra di avere grande intimità con ciò che va raccontando, di sentirlo vicino alla sua sensibilità e di restarne, in certo senso, sconvolta. Succede in tal modo che la partitura della pagina produca aperture vertiginose verso sensazioni di smarrimento e di angoscia, di sconforto; produca tentativi di fuga e di straniamento. Dall’altra parte si avverte, con maggiore lucidità percettiva, che il filo della trama, anche quando sembra precipitare verso soluzioni irreversibilmente dolorose, è, tuttavia, sorretto dalla speranza che le forze del male non potranno, e in nessun modo dovranno, prevalere.
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