Recensioni ed Eventi
In uscita per Algra Editore il nuovo romanzo di Rosalda Schillaci “Quando le uova non si trovavano
d’inverno”. L’autrice catanese nel 2017, per i tipi Algra, pubblica la raccolta di versi Infiniti Definiti e nel 2019, Diario Sottovento. Certe Tempeste incerti angoli di vita . È del 2018, Istintu di Jinestra , poesie in lingua siciliana.
Dalla magnifica prefazione di Lisa Bachis, introduttiva al testo:
«[…] L’autrice anche stavolta, superando gli ostacoli del dire troppo o del dire troppo poco, si è distinta per tema e complessità dell’opera, regalandoci uno spaccato storico che si muove tra le testimonianze biografiche e l’affresco di un’epoca; quella che attraversa le due guerre mondiali, e si raccoglie tutta sino a svolgersi intera dal 1943 alla ricostruzione post bellica isolana. Tra i profumi offerti dalla Natura e dalle mani di uomini e donne, in un’arte del fare che travalica i confini spazio temporali, abbraccia i nostri sensi e
cattura la nostra mente nell’ascolto di racconti, motti, modi di dire. […]
Sì, perché anche stavolta, è la Sicilia a essere narrata in una versatile e accurata prosa. […] Un romanzo – come ho più volte sottolineato alla Schillaci dopo averlo letto e riletto –, che è testimonianza di vicende famigliari ma trascende i singoli per narrare di uomini, donne e bambini che hanno vissuto e attraversato l’orrore. Alcuni sono caduti nell’abisso per non far più ritorno nel mondo dei vivi; altri sono tornati da sopravvissuti e più morti dei morti; altri ancora hanno scoperto, dopo un viaggio lungo e periglioso, la redenzione del rinnovamento.
Questa è dunque una storia di singoli ed è un romanzo corale, erede di quel Naturalismo e di quel
Verismo, tanto caro e non solo a noi siciliani. Vi si applica financo un’audace discesa agli inferi mediante l’ausilio della psicologia analitica, sotto la protezione di numi tutelari, quali Freud e Jung.
Giallo. Se qualcuno gli avesse chiesto quale fosse il suo colore preferito prima della guerra,
Aldo avrebbe risposto usando l’aggettivo che declinava la luce di miele di un’isola eternamente in
lotta con il destino. Gesualdo Giambirtone sapeva dire del blu del mare solo guardando allo specchio i suoi occhi.
La distesa infinita era per lui il grano di campagne dorate, di un paesino dell’entroterra siciliano. La luce del crepuscolo che si posava sull’ocra dei muretti di pietra di San Silvestro in Fiore. Nel periodo bellico la sfumatura era mutata nel giallognolo della pelle, ovunque votata alla miseria. Non più soltanto a tagliare la fame coltivando limoni che nessuna mano raccoglieva, ma lontano da casa, nell’epoca del finto metallo, il giallo era diventato il cereo madore di marce impolverate; del sudore a chiazze sulle divise. Le preghiere scordate – vere agonie sperdute nelle rughe della terra – precipitavano torve a confondere la fine del mondo scatenando una vampa violenta. Ora.
Ed ecco che ci viene consegnato, in un muto invito ad accoglierlo, il protagonista maschile: Aldo. Di lui
bisognerà che ne gustiate ogni dettaglio così come della sua metà, e mèta, […]: Stella Magrì. La storia ha inizio il 9 settembre 1943, Ventunesimo anno dell’Era fascista, dopo la firma dell’armistizio e si svolge in luoghi differenti, tra teatri di guerra, campi di prigionia e paesini saturi di profumi e bellezza, nonostante siano stati fiaccati e prostrati dai bombardamenti e dai rastrellamenti, causati da chi in un rapido cambio del gioco delle parti, da nemico è divenuto amico oppure nel cambio di casacca ha indossato i panni del traditore
o quelli del nuovo carnefice. Passaggi che si aprono su luoghi dai nomi reali o declinati verso una delicata finzione. Un viaggio, dall’Italia continentale sino all’entroterra siciliano, dove a consumarsi tra preghiere e speranze, «Stella era un fiocco fragile tra tanti fiocchi solitari. Affannatissima e sul punto di perdere le forze, s’attardava. Il vetro a causa del respiro inquieto si era appannato; lo pulì passando i polpastrelli». Ma ci sono le creature da accudire e proteggere; i frutti dell’amore, i figli benedetti: Nunù, Sasà e Lina.
La scrittrice, inoltre, non trascura di dare il giusto peso anche al lato maligno, che in quiescenza si rintana negli angoli più oscuri dell’essere umano. Quell’essere a cui le perdite e i dolori hanno indurito e incattivito il cuore. Da questo male – l’altro lato della medaglia –, la Schillaci ha fatto emergere figure di rilievo, in un romanzo avvincente che si legge d’un fiato ma che al contempo impone lentezza, per assaporarlo e farsene
avvolgere. Una storia dal sapore dolceamaro, forte e tenera, inchioda alla riflessione su un’umanità che può esser mutata nei costumi lungo il corso dei secoli, ma non nelle reazioni più oscure o solari dell’umano sentire. La sapiente penna dell’autrice ha dunque estratto dall’incandescente magma della creatività Comare Spina Silia, il cui nome registrato sui documenti era Silvestra e per un vezzo, di punto in bianco, aveva sostituito nelle presentazioni Studda con il diminutivo di Ausilia. Il prenome, appreso da forestieri, lo riteneva a suo dire originale ed elegante; le consentiva di raccontarsi al mondo come una buona samaritana.
Questa complessa figura femminile è degnamente accompagnata dal suo alter ego maschile, l’avvocato
Musumeci, «che nell’ambiente chiamavano ‘faina’, per via di una macchia bianca sul collo». Asperità e delicatezza, per nostra fortuna, tengono in perfetto equilibrio le fila della narrazione per giungere ad
Agostina, amica dal cuore generoso e alleata di Stella. Figlia di Silia è
la parte buona del frutto: la caratura di semi per pesare i preziosi; produceva ombra: era il
ristoro in luoghi aridi. Una chioma riccia e fitta le incorniciava il volto dalla pelle ambrata. A ventidue anni emanava la luce di una dignità innata, come chi coltiva pensieri pacati e animo gentile, nonostante un mondo di violenze. Lo sguardo era aperto nei magnifici occhi, grandi e limpidi di cielo primaverile, che superato il duro inverno aspira solo all’estate.
1914; 1919; 1943; 1945; 1946: la macchina del tempo procede sbalzandoci avanti e indietro per
riconsegnarci pagine di «Storia e Storie», come spesso mi ritrovo a scrivere in merito ai diversi accadimenti del mondo. Pagine che hanno influenzato e hanno contribuito, nel bene e nel male, a farci essere ciò che oggi siamo; individualmente od operanti nella società.
Vi è allora la possibilità che la salvezza giunga dal nostro essere custodi della memoria e delle memorie.
Quindi diviene atto fondante e necessario il conoscere, offrendo accesso all’acquisizione di buone capacità di lettura e di comprensione delle pagine, che riguardano noi tutti. Per tale ordine di motivi, in questo affresco,
non potevano mancare i guardiani del ‘Sapere’. Tra essi, Giorgio Marchesi, figura fondamentale, già si palesa in questi toccanti tratti descrittivi: si scosse, smise di leggere e spostò indietro la sedia: “Vengo subito. Anzi, per cortesia Anna,
riferiscilo a mia moglie e scalda del brodo di carne. Portane una tazza abbondante a quel poveretto.” Afferrò i fogli, li piegò con cura, e li inserì nella tasca interna della giacca. Prima di uscire, si fermò buttando uno sguardo alla finestra. Fuori, i prati erano fradici di pioggia e imperversava il temporale: brontolii di tuoni insieme a scariche elettriche infiammavano il cielo. I grandi tigli nei viali venivano scossi con violenza.
Un mondo investito da enormi stravolgimenti, generatori di fatti e misfatti, che hanno modificato sin
dentro le viscere le vite delle persone. Un mondo che l’autrice ci restituisce intero e frammentato insieme al rispetto per il ricordo e il dovere morale di portare testimonianza, in un immenso atto di amore e riconoscenza per chi è stato prima di noi e ci ha permesso di essere e di esistere.»
La formula letteraria non appare mai fine a se stessa, nelle tante anime dalle tinte contrastasti, ma pretesto stilistico suggestivo per intuizione psicologica e potenza lirica; un esempio di forza morale e dignità.
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