Pillole di storia: l’Unità d’Italia

Giuseppe Mazzini

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Cronaca di un’ epoca
Pillole di storia a puntate

PARTE PRIMA

 

A cura di Giuseppe Firrincieli

 

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PRIMA PUNTATA

 

 

G. Firrincieli

Parlare di Unità d’Italia, per noi siciliani, diventa molto difficoltoso, specie quando siamo costretti ad entrare nelle pieghe della Storia e analizzare fatti dolorosi e inumani che lasciano l’amaro in bocca e, nel contempo, creano dubbi sulla credibilità dei libri di storia, adottati nelle nostre scuole. Ma i siciliani che combatterono contro i Borbone, considerarono i piemontesi i liberatori o si sentirono letteralmente soggiogati dai piemontesi? Ancora, i nemici dei siciliani furono i Borbone o i Savoia? I briganti erano delinquenti o rivoltosi? Sono queste domande, a cui molti non sanno rispondere, ma fanno riflettere e, dopo i dovuti approfondimenti, ci lasciano sgomenti.

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La libertà, sbandierata ai quattro venti e la promessa delle terre ai contadini furono delle prese in giro. In pochi mesi dall’unità, dall’entusiasmo, si passò ad una vera forma di ostilità per tutto ciò che sapeva di piemontese. Quando io ero piccolo, mio padre mi raccontò un fatto che non potrò mai dimenticare : uno zio di mio nonno era giudice del Regno delle Due Sicilie e con l’arrivo dei piemontesi si dimise perché aveva giurato fedeltà al suo Regno. Ecco che sono diventato, da adulto, uno “innamorato” della storia siciliana e, permettetimi di dirlo “un vero sicilianista convinto”. Ecco perché non comprendero’ mai come sia stato possibile che nel Plebiscito, in Sicilia, votarono contro l’ Amnessione solo 667 aventi diritto al voto e, guarda caso, a Palermo solo 20, su 36000 votanti.

 

SECONDA PUNTATA

 

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Con l’Unificazione, il regno Sabaudo poté incamerare il Tesoro siciliano e quasi azzerare il proprio debito pubblico di 640 milioni di lire. Per i piemontesi, la Sicilia fu come la manna caduta dal cielo. Di conseguenza, il governo sabauda vendette persino le terre sottratte agli Ordini religiosi ed anche a famiglie patrizie, ritenute ostili. Ai contadini non assegnarono nulla. Chi si oppose a quei sorprusi, venne arrestato e lasciato marcire nelle carceri, come l’ottantenne Arcivescovo di Monreale, Mon. D’acquisto, don Gaetano Natoli ed altri 47 preti, internati nel lazzaretto di Nisida. Il fatto genero’ numerose rivolte contadine, a Bronte, a Nicosia, a Mascalucia, a Nissoria, a Leonfortle, a Biancavilla, ad Altavilla Milicia ed Alcara Li Fusi. Le sommosse vennero represse e morirono centinaia di contadini. Ma per capirne di più dobbiamo andare un più indietro nel tempo . Bronte in primo piano. Il 3 settembre del 1799,il re Ferdinando di Borbone aveva donato il complesso di Santa Maria di Maniace e il titolo di Duca di Bronte all’ammiraglio inglese Horatio Nelson, quale ricompensa per l’intervento della Marina inglese durante la rivoluzione napoletana.

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Intervento inglese, decisivo per la restaurazione borbonica, addirittura, sulla nave di Nelson, era stato recluso e successivamente giustiziato, uno dei capi militari della brevissima Repubblica Napoletana,
L’ Ammiraglio Francesco Caracciolo.

 

TERZA PUNTATA

 

Il dono del Re Ferdinando all’Amiraglio Nelson consisteva in una tenuta di ben 25000 ettari con annesso il palazzo signorile, confinante con la splendida chiesa e che prenderà il nome di Ducea di Nelson, nel territorio di Maniace, Bronte in provincia di Catania. Alcuni anni prima del 1860, il re Ferdinando II fece l’errore di aumentare le tasse, in modo esoso, a tutte le imprese anglosassoni che avevano possedimenti nel suo Regno. In Sicilia, molte imprese inglesi sfruttavano le miniere di pece e di zolfo. In particolare, nel sud del Val di Noto e nelle colline degli Iblei che si estendevano tra Ragusa, Scicli e Vizzini, vi erano cave e miniere di pece che rappresentavano, per quei tempi, il più grande giacimento asfaltivero nel mediterraneo.

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L’imprenditoria inglese, già dal 1838, era presente nell’ Isola e la produzione annua di asfalto arrivava fino alle 2 mila tonnellate e visti i lauti guadagni, re Ferdinando II, non si fece alcuno scrupolo nel quadruplicare le tasse esistenti. Cosa che gli inglesi non digerirono affatto. Su una superficie di oltre 308 ettari da sfruttare per la estrazione di asfalti, gli inglesi ne gestivano più di 200 e, precisamente, le società imprenditoriali interessate erano : “The United Limmer and Vorwohle Rock Asphalte Paving Comp. Lmt” con circa 85 ettari; “The Val de Travers Asphalte Paving Comp. Int.” con 70 ettari ; “l’ H and A. B. Aveline” con 50 ettari. Una leggenda metropolitana dice che le strade di Londra vennero asfaltate con il bitume estratto dalla pece del ragusano. Ecco che gli inglesi, stanchi di sentirsi sfruttati dai Borbone, nel 1860 vollero la disfatta del Regno delle Due Sicilie e, solo ed esclusivamente, per interessi economici. Ecco che il mercenario Garibaldi e compagni vennero assoldati per invadere il regno, a partire dalla Sicilia. L’eccidio di Bronte fu una delle tante forme di salvaguardia degli interessi economici inglesi, a cui Garibaldi e il regno sabaudo dovettero piegarsi. Il regno anglosassone risultò il mandante del massacro, ordinando a Garibaldi, a cui non perdono’ mai di aver promesso la terra ai contadini, di soffocare con il sangue, le rivolte dei braccianti per evitare di mettere in pericolo i 25 mila ettari della ducea Nelson.

 

QUARTA PUNTATA

 

L’Eccidio di Bronte fu una pagina di storia siciliana molto dolorosa. Il console inglese, visto il pericolo del tumulto generale che spingeva i braccianti ad una rivolta, per le promesse di Garibaldi non mantenute come “la terra ai contadini”, non perse tempo di intimare al famigerato eroe dei due mondi di spegnere quei focolai di rivolta, in modo da garantire l’integrità della proprietà anglosassone, in quel di Bronte, ovvero la Ducea di Nelson, prima che la rivolta prendesse piede causando danni irreparabili. Del resto, in Comuni vicini, come Linguaglossa, Randazzo, Centuripe e Castiglione di Sicilia, erano iniziate forme di protesta.

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Giuseppe Garibaldi, preoccupatissimo per il richiamo ricevuto dal console inglese, il 6 agosto del 1860 inviò due Battaglioni dei Cacciatori delle Alpi, al comando di Nino Bixio.

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Girolamo Nino Bixio

Questi veniva descritto, dagli stessi colleghi di avventura, uomo feroce e sanguinario e lo stesso Garibaldi ebbe a dichiarare”… È un pazzo scatenato che non si può trattenere!”. Ma chi era Girolamo Nino Bixio? Bixio era nato a Genova, sin da giovanissimo servi la marina sarda e a 23 anni navigo’ su libere navi mercantili fino all’oceano Pacifico; Volontario nel 1848, in Lombardia e nel Veneto, questi, nel 1849 prese parte ai combattimenti per la Repubblica Romana e venne ferito gravemente con Goffredo Mameli. Nel 1862, il generale sanguinario passò nell’ Esercito regolare e nel 1866 comando’, a Custoza, la 7° Divisione di guerra, per poi, nel 1870, entrare a Roma., dalla parte di Civitavecchia, facendo tuonare i suoi cannoni sul Vaticano, non preoccupandosi né della vita delle persone e né della possibile distruzione di un patrimonio artistico e culturale, unico al mondo. Bixio, dopo l’unità d’Italia, ritornò in mare e nel 1873 morì di colera a bordo della nave Maddaloni, nei pressi di Atchin, nelle Indie olandesi, dove si era recato per trsportare mercenari.

 

QUINTA PUNTATA

 

L’Eccidio di Bronte, assieme ad altri episodi simili, segnò l`inizio di una lunga scia di sangue. In termini più chiari, vennero compiute vere e proprie stragi, centinaia di fucilazioni, centinaia di condanne a morte e violente deportazioni.

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Il generale Morozzo Della Rocca, fedelissimo di Vittorio Emanuele, proibi ai suoi uomini di fare prigionieri, ma ordinò di passare per le armi chiunque si fosse ribellato. Ma chi era Morozzo Della Rocca? Da ministro della guerra nel 1859 del Regno Sabaudo, fu dapprima Aiutante di Campo del Re, per poi partecipare alla Spedizione nell’ Italia Meridionale e per premio, nel 1861 venne nominato Senatore. Per dovere di cronaca, solo nei primi mesi del 1861, vennero fucilate, dai soldati piemontesi, ben 9860 persone, 10604 siciliani furono feriti, 40 donne e 60 ragazzi vennero uccisi, 13629 furono fatti prigionieri, 918 case vennero bruciate, 6 paesi dati alle fiamme, 12 chiese razziate, centinaia di conventi predati e 1500 comuni soffrirono la fame perché in rivolta. E non ci fermiamo qui! Il governo piemontese emano’ la famosa legge Pica, con la quale, l’esercito piemontese ebbe la facoltà di mandare a domicilio coatto gli oziosi, i vagabondi e le persone sospette. Ebbene, nel giro di poco, vennero relegate in esilio, decine di migliaia di persone sospette per essere state semplicemente simpatizzanti dei briganti, considerato che questi ultimi venivano direttamente fucilati senza alcun processo. Dal Parlamento francese riecheggiarono critiche pesanti nei confronti del governo piemontese; il deputato Gemeau ebbe a dire : ” I rivoluzionari polacchi vengono chiamati insorti, mentre quelli delle Due Sicilie, vittime delle più feroci persecuzioni, sono chiamati briganti, ma è purtroppo vero che gli uni e gli altri difendono i loro paesi, la loro nazionalità e la loro religione a prezzo dei più grandi sacrifici… La loro Vita…. “.

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I siciliani rivoltosi dovettero subire l’appellativo di briganti e i generali piemontesi come Bixio, Cadorna, Govone e Cialdini, quali feroci persecutori e massacratori, rimasero a perenne ricordo” eroi risorgimentali” ai quali, Comuni siciliani dovettero intitolare strade. Piazze, scuole. Ospedali.

 

SESTA PUNTATA

 

Dopo che il capo del Governo sabaudo, Camillo Benzo Conte di Cavour, d’accordo con Casa Savoia, licenzio’ il cosiddetto Eroe dei due Mondi a Teano, il 26 ottobre 1860, diede inizio ad una campagna militare intensa e tale da disperdere qualsiasi sentimento garibaldino fra gli insorti del regno delle Due Sicilie. In Sicilia, i picciotti ex garibaldini del 1860 dovettero darsi alla macchia per sfuggire alle persecuzioni di Efisio Cugia.

Efisio Cugia

Efisio Cugia

A Fantina, nel messinese, un gruppo di ex garibaldini fu circondato da un battaglione di soldati piemontesi e sette di loro si consegnarono ai militi piemontesi e questi vennero fucilati sul posto. Tale avvenimento fu il prologo per una vera e propria operazione di Caccia all’uomo per gli ex siciliani garibaldini che proprio per mano di un altro sanguinario, Enrico Cialdini, succeduto improvvisamente a Cugia, vennero trucidati come delinquenti comuni.

 Enrico Cialdini

Enrico Cialdini

Altri rivoltosi furono fucilati ad Alcamo, Recalmuto, Siculiana, Grotte, Castel Termini e Bagheria, Giovanni Corrao, ex generale al seguito di Garibaldi e convinto assertore unitarista, venne assassinato a Palermo il 3 agosto del 1863.

Il generale Giovanni Corrao

Il generale Giovanni Corrao

Le mostruosità delle repressioni si registrarono a Girgenti dove un mite bracciante, di nome Vincenzo Ferro, venne fucilato in piazza ed esposto in pubblico come esempio perché nella cascina del suo padrone era stato rinvenuto un vecchio fucile arrugginito; seguirono centinaia di arresti di persone semplicemente, perché sospettati di simpatie per Garibaldi. Il primo ottobre del 1862 avvenne, a Palermo, un altro episodio estremamente inquietante e oscuro: 13 persone vennero uccise a pugnalate nel giro di qualche ora. Un’accurata inchiesta, condotta anni dopo da Giovanni Raffaele e da Edoardo Pantano, politici siciliani di rilievo agli inizi del secolo scorso, dimostro’ che il complotto era stato architettato dalla polizia sabauda per dimostrare l’esistenza di accordi segreti fra nostalgici borbonici, garibaldini e progressisti repubblicani. Ma chi erano Efisio Cugia ed Enrico Cialdini? Per la storia italiana due eroi del Risorgimento, per la storia siciliana, due sanguinari dell’unità d’Italia.

Napoleone III con Vittorio Emanuele II

Napoleone III con Vittorio Emanuele II

Napoleone III disse a Vittorio Emanuele II le seguenti memorabili parole: “Il governo dei Borbone non commise in cento anni gli errori e gli orrori che hanno commesso gli agenti di Vostra Maestà in un anno”.

 

SETTIMA PUNTATA

 

I Siciliani, sotto il Regno Borbonico, non conoscevano la Leva militare obbligatoria e si opposero in massa contro tale Imposizione dei piemontesi. Il diniego dei siciliani contro il servizio militare coatto, imposto dal Regno savioardo, provocò un’ altra risposta violenta da parte degli Invasori. A Marsala vennero arrestati tre mila abitanti, perché contrari all’ arruolamento forzato dei propri figli, e vennero rinchiusi in caverne. In altre località siciliane, vennero incarcerate madri, mogli e sorelle di giovani renitenti, di cui, molte torturate e uccise. Chiaramente la sete di denaro, dimostrata dai piemontesi, determinò la solita differenza: Ufficiali savoiardi corrotti fecero si che, ai coscritti al militare di leva della durata di 4 anni, fossero sempre i poveri, perché bastava pagare una lauta prebenda agli emissari piemontesi per essere esonerati da quello ingrato compito.

Il soldato piemontese assieme ad un garibaldino

Il soldato piemontese assieme ad un garibaldino

La leva obbligatoria diventò determinante per l’ affossamento dell’ economia agricola dell’intera Isola, in quanto la mano d’ opera nelle campagne subì una flessione gravissima e sommata alle sottrazioni del denaro dalle casse pubbliche, la Sicilia venne ridotta allo stremo. Per pura curiosità, andremo ad analizzare tale grave crisi economica, senza precedenti. La prima cosa che fece Garibaldi, appena sbarco’ a Marsala, fu quella di svuotare le casse del municipio di quei pochi baiocchi per dividerli con i suoi seguaci. A Palermo, si impossesso’, invece, della enorme cifra di 5 milioni di ducati in oro della Zecca del Banco di Sicilia, pari a 21 milioni di lire piemontesi e sicuramente buona parte di essa prese la via per Torino. A Catania, il condottiero dalle orecchie mozzate, perché ladro di cavalli, al danno aggiunse la beffa e ancora oggi siamo costretti a leggere sulla targa che sta ai piedi della statua eretta davanti la villa Bellini, in via Etnea, il seguente epitaffio: “In Catania, trovammo Vulcano di patriottismo, uomini, vettovaglie, denaro e vesti per la nuda mia gente! ”

La lapide che si trova ai piedi della statua di Garibaldi a Catania

La lapide che si trova ai piedi della statua di Garibaldi a Catania

I piemontesi, e garibaldini si dimostrarono assetati di denaro e uno dei motivi principali era quello di finanziare altre azioni belliche come quella del Lombardo Veneto e dell’ Italia centrale e così, oltre a svuotare le casse pubbliche del Regno delle Due Sicilie, caricarono di tasse e balzelli i siciliani.

Una scena di rivoltosi siciliani contro i piemontesi

Una scena di rivoltosi siciliani contro i piemontesi

Il carico fiscale per gli isolani divenne tale che i ricchi diventarono nullatenenti e nel giro di poco, i poveri, diventarono miserabili!

 

OTTAVA PUNTATA

 

Le opere d’arte, macchinari di industrie tessili, i tesori delle chiese e dei conventi vennero saccheggiati in massa e portati al Nord, sotto l’egida di un motto : “In Nome del Patriottismo per fare l’ Italia!”. La confusione in Sicilia regnava sovrana. La gente si rendeva sempre più conto che non stava per cambiare nulla. Da una dominazione, si passava ad un altra e il proverbio : “Cu cangia a vecchia ca nova, cu cerca vai, i trova!”, diventò luogo comune. Ma questo fu solo il prologo di una lunga serie di vessazioni violente. Ma andiamo per ordine, il governo dei Savoia aveva rotto i rapporti commerciali con i francesi per salvaguardare la commercializzazione dei prodotti industriali del Nord e ciò fece precipitare nella miseria le zolfare, la produzione vitivinicola, il cotone, altri prodotti agricoli e la seta.

Un bellissimo piroscafo della flotta dei Florio

Un bellissimo piroscafo della flotta dei Florio

La società di navigazione dei Florio di Palermo venne annientata dalla società Rubattino di Genova. Il Compartimento marittimo di Palermo venne trasferito a Genova.

Una nave della società di navigazione di Genova

Una nave della società di navigazione di Genova

L’ avvenimento determinò una crisi nera per le attività dei cantieri navali siciliani. Le monete di metallo vennero sostituite dalla carta moneta, così enormi quantità di oro e di argento presero la via del Piemonte. Le decisioni particolarmente gravi continuarono ancora con la proibizione della produzione del baco da seta, per consentire lo sviluppo a Torino delle industrie della Snia Viscosa, ovvero la produzione di seta sintetica.

Il porto di Palermo durante il regno delle Due Sicilie

Il porto di Palermo durante il regno delle Due Sicilie

In Sicilia, sul versante dei Nebrodi e sull’intera valle degli Iblei, primeggiava una floridissima piantagione di alberi di gelso per l’allevamento di bachi da seta e poi piantagioni di cotone che partivano da Campobello di Mazara per arrivare fino a Gela. Con tale divieto, la Sicilia, non solo si vide rubare persino le filande, ma anche i macchinari e il lavoro femminile nel settore dell’artigianato.

 

NONA PUNTATA

 

A Vittoria, un ricco Comune agricolo in provincia di Ragusa, veniva prodotto, come oggi, un buon vino frappato dal celebre nome di “Cerasuolo”, la cui possente gradazione arrivava, mediamente, 22, 23 gradi.

Un carretto siciliano che trasporta una botte di vino

Un carretto siciliano che trasporta una botte di vino

Buona parte del prezioso nettare, veniva esportato in Francia, perché, ai viticoltori d’ Oltralpe, serviva, come vino da taglio per i vini francesi. In Borgogna, i vini prodotti avevano una gradazione leggera, 8,9 gradi e, quindi, per renderli più corposi, venivano tagliati con quelli siciliani più forti di gradazione. A Scoglitti, frazione marinara del Comune di Vittoria, sin prima del 1800, esistevano grandi magazzini, chiamati ” maizze’, dove venivano depositate grosse botti di vino, piene del famoso “Cerasuolo”, trasportate con i carretti e in attesa si essere imbarcate, per poi essere trasportate fino al porto di Marsiglia in Francia.

Un deposito di botti di vino

Un deposito di botti di vino

L’ esportazione, fino al 1860, veniva gestita dalla Compagnia di navigazione dei Florio di Palermo che deteneva, fra l’altro, la leadership delle rotte commerciali nel Mediterraneo. Con l’arrivo dei piemontesi nelle Due Sicilie, il governo Savoiardo tolse la gestione della rotta ai Florio ed impose la società di navigazione Rubattino di Genova a gestire le esportazioni. Il trasporto dei vini era destinato a Marsiglia, per raggiungere la Borgogna. Con la rottura dei rapporti commerciali tra i piemontesi e la Francia, l’esportazione di vini siciliani andò man mano a scemare sino a quando, ad inizio Novecento, la produzione agricola e derivati subirono una forte contrazione.

Il porto di Scoglitti in una foto d'epoca

Il porto di Scoglitti in una foto d’epoca

Scoglitti e centinaia di Comuni e cittadine siciliane si spopolarono letteralmente e così inizio’ il famoso esodo di ben 700 mila siciliani verso le Americhe. Le stranezze della vita! Nel periodo antecedente all’unità, la Sicilia era una terra prosperosa, non si registtavano grosse tassazioni e persino, imprenditori svizzeri vennero ad investire nell’isola. Con i piemontesi, i siciliani sprofondarono nel decadentismo più nero e si videro strappare qualsiasi velleità e aspirazione identitaria per godere di un libero Stato, con il costo persino di decine di migliaia di morti. Ebbene, sin da subito, per i siciliani, l’unità d’Italia fu una vera e grande illusione.

Il generale Emile Fleury

Il generale Emile Fleury

Ancora Napoleone III, in una missiva al Generale Fleury, scrisse: ” Ho scritto a Torino le mie rimostranze; i dettagli di cui veniamo a conoscenza sono tali da far ritenere che essi alieneranno tutti gli onesti della causa italiana. Non solo la miseria e l’anarchia sono al culmine, ma gli atti più colpevoli ed indegni sono considerati normali espedienti. Un generale di cui non ricordo il nome, avendo proibito ai contadini di portare cibo quando si recano al lavoro sui campi, ha decretato che siano fucilati tutti coloro che vengono trovati in possesso di un pezzo di pane. I Borbone non avevano mai fatto cose simili!”.

 

DECIMA PUNTATA

 

Antonio Ciano ne “Le Stragi e gli eccidi dei Savoia” scrive: ” Quanta è costata al Sud la barbara invasione savoiarda? 54 paesi rasi al suolo, genocidio di oltre un milione di meridionali lasciati morire, di 56 mila soldati nei vari lager. 270 mila meridionali incarcerati per motivi politici, distruzione delle industrie e del commercio, incameramento e vendita dei beni demaniali e di quelli ecclesiastici, distruzione dell’ agricoltura e del mondo contadino, balzelli, rapina del tesoro dello Stato delle Due Sicilie (pari a 443 milioni di lire -oro). Appalti di ogni genere a ladri, truffatori, emigrazione infinita dei meridionali, circa 23 milioni, una cifra che nessun popolo ha mai dovuto subire. Una riflessione che a questo punto non possiamo ignorare, ma che è doveroso evidenziare, riguarda un commento di Antonio Gramsci : “Lo Stato italiano ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale e le Isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati infamarono con il marchio di briganti”. Ai lettori lascio i dovuti commenti. Ma chi era Antonio Sebastiano Francesco Gramsci?

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Antonio Gramsci è stato un politico, filosofo, politologo, giornalista, linguista e critico Letterario ; nacque ad Ales in Sardegna nel 1891, iscritto prima al partito socialista e poi al partito comunista, fu fondatore del movimento Ordine Nuovo nel 1919, fece parte dell’ Internazionale comunista nel 1923 e fu deputato del PCI. nel 1924, Gramsci fondo’ il quotidiano, L’ Unità. Per le sue idee rivoluzionarie fu condannato a 20 anni di carcere.

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Un’altra tegola sulla testa dei siciliani, in termini di tassazioni, fu raccontata da Carmine Colacino in ” La Storia proibita” : Subito dopo l’annessione, il Governo piemontese impose ai siciliani e ai Meridionali le seguenti nuove tasse, sconosciute fino a quel momento come imposta personale; tassa sulle successioni; tassa su donazioni, mutui e doti, sulle adozioni, sulle pensioni, sulla sanità, sulle industrie, sulle fabbriche, sulle società industriali; tassa pesi e misure; tassa di esportazione sulla paglia, fieno ed avena, sul consumo di carni, pelli acquavite e birra; tassa sulla caccia e tassa sulle carrozze e vetture. I Siciliani si ritrovarono in una fase di stordimento generale, visto che sotto il Regno dei Borbone non avevano subito mai angherie del genere. Risultato? I ricchi diventarono poveri e i poveri affamati!

 

UNDICESIMA PUNTATA

 

Prima di continuare a parlare di fatti salienti della vera storia siciliana, è bene evidenziare ciò che dicono gli altri su di noi, con critiche di qualunque genere, anche piuttosto dure e infamanti, dopo l’unità d’Italia.

Benedetto Croce

Benedetto Croce

Benedetto Croce, filosofo, storico e critico, in una meravigliosa opera “Storia come pensiero e come azione” scrisse :”L’unità della Storia d’Italia comincia nel 1860. Prima di quella data vi sono realmente le storie dei Regni di Napoli e di Sicilia, del Regno della Sardegna, dello Stato Pontificio, del Granducato di Toscana, dei possedimenti di Casa d’Austria… ma non c’è una storia d’Italia. Quando la Sicilia era Nazione e fu realmente Nazione, l’Italia era soltanto una composizione fisica “.

Marco Tullio Cicerone

Marco Tullio Cicerone

Andando indietro nel tempo, Cicerone, nel descrivere il popolo siciliano, disse : “Genus acutum sed suspiciosum”. Cioè un popolo intelligente, ma sospettoso e aggiunse anche delle qualità come spirito d’ordine, votato all’economia e all’amore per il lavoro. Inoltre i siciliani si distinguevano dai greci, considerati poltroni e viziosi.

Apuleio

Apuleio

Apuleio chiamava i siciliani, trilingue e scrisse:”Sciolto di lingua è il popolo siciliano, ma pronto di braccio nelle guerre, onde sovente di trofei conquistati orna i suoi porti”. Carlo Giachery, autore di “Memoria descrittiva della Sicilia”, descrivendo il carattere somatico ed intellettuale dei siciliani, scrive :”I siciliani, naturali oratori, pungenti, propensi ai proverbi, svisceratamente amanti del suolo natio, sospettosi e destri adulatori al pari dei greci… Le loro passioni sono energiche, potentemente gelosi, costanti nell’odio che spesso non cessa se non segue la vendetta; dalla facilità, con cui cadono nella esagerazione, nasce il loro parlato figurato, l’anima brilla nel loro sguardo, per la cui spiritosa agilità si comunicano scambievolmente i pensieri; il gestire vi è rapido, tutto è mobilità… “.

Indro Montanelli

Indro Montanelli

Ma le critiche per i siciliani non sono tutte rose e fiori, Indro Montanelli, grande firma del giornalismo italiano, in una intervista al” Figaro litteraire” disse che i siciliani sono peggio degli algerini e mentre i Galli non sono costretti a dire che gli algerini sono francesi, gli italiani sono obbligati a rilasciare ai siciliani, la carta d’identità della Repubblica italiana.

Denis Mack Smith

Denis Mack Smith

Ancora Denis Mack Smith, nel libro “Storia della Sicilia medievale e moderna” descrisse l’Isola, una terra interamente mafiosa, dove si praticava il baratto ed era stracolma di rivoluzionari sanguinari e delinquenti che come lupi affamati, vestiti di pelli di capre, scendevano dalle montagne e dai boschi per assaltare e ammazzare possidenti e mangiarne il fegato e il cuore arrostiti, al grido sarcastico di “Viva l’Italia”.

 

DODICESIMA PUNTATA

 

Non possono essere ignorate le modalità con cui furono avviate le operazioni del referendum! Si votava nei Comuni con una popolazione superiore ai 5 mila abitanti e avevano diritto al voto solo quelli che pagavano le tasse, i dipendenti statali, i militari piemontesi. Vennero esclusi dal voto, tutti quelli che avevano manifestato simpatia per i Borbone, ex militari dell’esercito Borbonico, ex giudici del regno delle Due Sicilie ed appartenenti ad Ordini ecclesiastici quindi preti e monaci. Ma il grande bluff dell’annessione è riscontrabile non solo nella scelta dell’elettorato, ma nelle modalità delle votazioni e nel rapporto numerico dei votanti rispetto alla popolazione. Al centro vi era l’urna, munita di feritoia, dove inserire le schede prestampate. Alla sinistra e alla destra dell’urna trovavano posto due grandi ceste, prive di coperchi, dove erano state ammucchiate le schede, quelle con il “Si” e quelle con il “No”. Ogni elettore con il diritto al voto doveva passare tra due file di guardie piemontesi con la baionetta inastata e schierate per trattenere la folla, poi doveva avvicinarsi alle ceste sotto gli occhi dei presenti, prendere la scheda prescelta, firmare l’apposito registro e dichiarare al seggio le proprie generalità. In tale modo si voto’ per l’annessione al Regno Sabaudo e non al Regno d’Italia, il quale nacque l’anno dopo: Addi 21 ottobre 1860 si svolse il plebiscito sull’ annessione al Piemonte del Regno delle Due Sicilie. Nel Continente su circa 1.650.000 iscritti nelle liste elettorali (la popolazione vera si aggirava attorno ai sei milioni e mezzo di abitanti) i votanti furono 1.132.366, cioè il 79,5%, di cui 1.302.064 favorevoli e 10.302 contrari. In Sicilia, su circa 575.000 presunti aventi diritto al voto, in quanto non esistevano liste elettorali, i votanti furono 432.720, cioè il 75, 2% di cui 432.053 favorevoli e 667 contrari, e su una popolazione che si aggirava attorno ai 2.332.000 abitanti.
A parte ogni considerazione sulla plausibilita’ di tali risultati, sembra strano che vi furono poche centinaia di persone contrarie. Ed in realtà, la successione dei fatti venne a dimostrare come l’annessione della Sicilia al Regno d’Italia avvenne con una sequenza di attività non giuridiche e messe in atto, forzatamente dallo Stato Sabaudo, ponendo in essere un meccanismo di repressione del dissenso che condusse alla farsa del Plebiscito, mediante il quale il popolo siciliano dichiarò quasi all’unanimità di accettare l’annessione.

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Immagini del plebiscito

Persino Giuseppe Garibaldi, isolato e deluso, scrisse nel suo diario : “Oggi veggo succedere il vituperio della Sicilia che io sarò orgoglioso di chiamare la mia terra d’adozione ; io mi sento costretto o elettori a rassegnare un mandato che incatena inutilmente la mia coscienza, e mi rende complice indiretto di colpe non mie ; a questo atto non mi consiglia solo l’affetto dovuto alla Sicilia, ma il pensiero che in Essa furono offesi il diritto e l’onore e compromessa la salute di tutta l’Italia “.

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Un manifesto sulla farsa del plebiscito.

 

TREDICESIMA PUNTATA

 

Il 1866 fu l’anno in cui il governo di Torino sferro’ un colpo mortale all’economia della Sicilia : Quelle terre espropriate che dovevano essere distribuite ai contadini, come era stato promesso da Garibaldi, furono messe all’asta con il preciso scopo di venderle ai ricchi, fecero guadagnare ai Savoia enormi somme, come ho ricordato già, ma occorre puntualizzare che in un batter di ciglio venisse sottratta una enorme liquidità alla Sicilia e neanche una minima parte venne reimpiegata in Sicilia, mentre la fame e la miseria si accanivao feroci sui legittimi proprietari.

Giuseppe Garibaldi a Caprera

Giuseppe Garibaldi a Caprera

Chi si oppose a quei soprusi venne arrestato e lasciato marcire in carcere. Ma già nel 1862 era iniziata la repressione piemontese. Addiritura, a metà dell’anno precedente, il 16 giugno del 1861, era morto Camillo Benso conte di Cavour, e Bettino Ricasoli che prese le redini del governo piemontese, non fu da meno sulla condotta colonizzatrice e repressiva delle Due Sicilie. Con la introduzione della leva obbligatoria della durata di 4 anni, sconvolsero ancora di più l’economia siciliana, visto che toglievano le braccia necessarie all’agricoltura dell’Isola. Chiaramente, oltre al fatto che ufficiali corrotti fecero si che soltanto i poveri potessero subire l’arruolamento coatto, molti genitori siciliani iniziarono a dare ai propri figli, appena nati, nomi nuovi per quei tempi, in modo da suscitare confusioni sul sesso; i neonati vennero scritti all’anagrafe dei Comuni, con nomi mai usati. Nomi come Andrea (Niria), Elia (Alia), Enea (Ania) proliferano fra le nuove generazioni per confondere gli ufficiali d’Anagrafe di quel tempo, con una indicazione che poteva appartenere al genere femminile nei registri demografici comunali. Come già detto, il vivere divenne sopravvivere, la povertà e la miseria divennero le condizioni ultime per dare inizio all’emigrazione forzata che ha fatto conoscere i siciliani nel mondo come gente povera e incivile.

Forse il cosiddetto Eroe dei due Mondi, ammazzapreti, aveva un suo ideale e cioè, un’Italia forte e libera, che andasse dalle Alpi al Mediterraneo, tutta repubblicana e senza divari tra il Nord e il Sud. Forse i soldi trafugati ai siciliani gli dovevano servire per la causa di libertà e le sue mire politiche andavano oltre il regno piemontese, visto che, un anno prima della sua morte, scrisse delle lettere in cui evidenziava le malefatte dei Savoia e la delusione provata per una mai raggiunta Italia repubblicana.

Adelaide Cairoli patriota e madre dei fratelli Cairoli

Adelaide Cairoli patriota e madre dei fratelli Cairoli

In una lettera, inviata ad Adelaide Cairoli, nel 1868 scrisse : “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio”. Un dato positivo forse si coglie durante la dittatura garibaldina nell’isola, per decreto del prodittatore Mordini.

Il prodittatore Antonio Mordini

Il prodittatore Antonio Mordini

Il suddetto Decreto prevedeva la Istituzione di un Consiglio straordinario di Stato, con il compito di “studiare la peculiare situazione siciliana affinché se ne conciliassero le esigenze con il disegno generale dell’unità e prosperità della Nazione italiana”. L’organo che elaboro’ un lungo studio su un progetto di Statuto regionale siciliano, cessò la propria attività all’indomani dell’unificazione dello Stato, e l’attività da esso svolta non venne neanche presa in considerazione dal Parlamento di Torino, che mal tollerava le aspirazioni autonomiste isolane.

 

QUATTORDICESIMA PUNTATA

L’unico merito, che si può, comunque, a scrivere al lavoro svolto dal Consiglio per lo studio del progetto di uno Statuto siciliano, fu quello di aver sollevato, per la prima volta in una sede “istituzionale” a rilevanza nazionale, la “Questione Siciliana”, cioè una autorevole anticipazione propositiva per l’istituzione di un alto commissario alla formazione dello Statuto Autonomistico nel 1944.

L'onorevole Marco Minghetti

L’onorevole Marco Minghetti

Peraltro, occorre evidenziare come nel 1861, l’onorevole Minghetti presentò al governo piemontese un progetto che contemplava la ripartizione del Regno in Consorzi interprovinciale, denominati “Regioni” e con a capo appositi Governatori, di nomina del Governo piemontese e coadiuvati da apposite Commissioni elette dai Consigli provinciali interessati. Tale progetto, poi scartato dalla Camera, rappresentava un tentativo di moderare l’uniformità amministrativa dello Stato.

On. Bettino Ricasoli, capo del governo piemontese nel 1866

On. Bettino Ricasoli, capo del governo piemontese nel 1866

Il Governo Ricasoli lo bloccò, in favore del modello prefettizio di stampo napoleonico, peraltro diffuso in Piemonte prima dell’Unificazione del Regno. Nel 1866 si ribellarono, politicamente, gli oppositori al Governo Ricasoli, il quale, a sua volta, rispose fermamente e accusando gli stessi oppositori come responsabili di una congiura separatista, promossa da elementi clericali e borbonici. Un futuro e IV Stato d’ Assedio venne decretato il 3 gennaio del 1894 dal cosiddetto “Governo di coalizione” presieduto dall’ex repubblicano e mazziniano, Francesco Crispi, deciso reazionario antisiciliano. L’azione repressiva sulle popolazioni siciliane, ad opera delle truppe piemontesi, ebbe un bilancio spaventoso di eccidi(circa 600 per la cronaca) e arresti non quantificabili , con l’alibi politico di fermare l’ondata del socialismo siciliano, formato da contadini ed operai che avevano aderito al Movimento dei Fasci siciliani.

Una foto d'epoca dei Fasci siciliani

Una foto d’epoca dei Fasci siciliani

 

Storia dei Fasci siciliani di Salvatore Francesco Romano

Storia dei Fasci siciliani di Salvatore Francesco Romano

Salvatore Francesco Romano, autore del libro “Storia dei Fasci siciliani” Edizioni La terza, Bari 1959, pagina 414, scrisse : “Il Comitato Centrale dei Fasci, con un piccolo manifesto nel gennaio del 1894, chiedeva al governo l’abolizione del dazio sulle farine, un’ inchiesta sulle pubbliche amministrazioni dell’Isola, col concorso dei Fasci ; l’abolizione della sanzione legale dei Patti colonici e minerari deliberati nel precedente congresso di Corleone del partito socialista italiano; la costituzione di collettività agricole e industriali, mediante i beni incolti dei privati o i beni comunali dello Stato e dell’Asse ecclesiastico non ancora venduti ; l’espropriazione forzata del latifondo, con la concessione temporanea agli espropriati di una lieve rendita annua; leggi sociali per il miglioramento economico e morale dei proletari ; stanziamento nel bilancio dello Stato della somma di 20 milioni di lire per provvedere alle spese necessarie all’esecuzione di queste domande, per l’acquisto degli strumenti di lavoro, tanto per le collettività agricole, quanto per quelle industriali e per anticipare alimenti ai soci e porre la collettività in grado di agire utilmente “.

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I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello

I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello

Appare evidente far nota del tradimento del partito socialista di allora a danno dei contadini e operai siciliani, come descritto anche nel romanzo storico” I vecchi e i giovani” di Luigi Pirandello.

 

QUINDICESIMA PUNTATA

 

Adesso torniamo un po’ indietro e ci fermiamo a quel fatidico giorno dell’11maggio del 1860. Giuseppe Garibaldi giunge a Marsala e dai due vapori, Piemonte e Lombardo, sbarcano quasi mille uomini, in camicia rossa. Già sin dal primo mattino, in quel tratto di mare, antistante il porto della cittadina marinara Siciliana, si trovavano due navi inglesi, ancorate al largo e pronte, nel caso ci fosse bisogno, a dare aiuto ai garibaldini. A Marsala, Giuseppe Garibaldi fece affiggere il suo primo proclama per pubblicizzare il suo arrivo : “Siciliani, io vi ho condotto un pugno di bravi, i quali hanno risposto al vostro eroico appello, noi siamo con voi, né altro vogliamo, se non la liberazione del paese nostro.

Lo Sbarco a Marsala

Lo Sbarco a Marsala

 

Giuseppe Garibaldi al suo arrivo a Marsala

Giuseppe Garibaldi al suo arrivo a Marsala

 

Alle armi tutti! La Sicilia mostrerà ancora una volta al mondo come un Paese, per l’energica volontà di tutto un popolo si affranca da’ suoi oppressori “. E così la Sicilia e i siciliani iniziano a cadere dalla padella nella brace. È doveroso proporre qualche pagina del diario “I mille da Genova a Capua” di Giuseppe Bandi, uno dei Mille al seguito di Garibaldi, che racconta, giorno per giorno, l’avanzare dei garibaldini con punte di romanticismo ma anche con aspra crudezza, evidenziando fatti e misfatti e definendo a volte barbari e a volte beduini i siciliani, ma descrivendo, anche, delle verità sulla Sicilia e sui siciliani (G. Bandi, I Mille da Genova a Capua, pag. 121):”… Eravamo finalmente in Sicilia, nell’isola celebrata da poeti leggiadri, che la vollero albergo prediletto ai numi, e popolarono di ninfe i suoi boschi e di naiadi le sue fonti; eravamo nell’isola dei vulcani e delle grandi metropoli del tempo antico; nella culla della gentile filosofia e della italica lingua (accenna alla scuola poetica siciliana provenzaleggiante, fiorita nella prima metà del secolo decimo terzo, alla corte di Federico II). Ogni suon di campana ci pareva un’eco della squilla de’ Vespri; in ogni fiore cercavamo il profumo d’ambrosia che rivelava le idee; in ogni suono lontano e indistinto, un mormorio delle cetre de’ trovatori, che innamoravano le belle dagli occhi neri alla corte di Federigo. Lettori amici, io vi dirò che mi cantavano in cuore venticinque anni ed ero tutta poesia; e voi non riderete se io vi giuro che i miei occhi cercavano per le Valli solinghe Giovanni Da Procida (giurista insigne, esule dall’isola natia caduta sotto il dominio angioino, alla corte di Pietro III D’ Aragona. Rientrerà in Patria dopo i Vespri del 1282.

Giuseppe Bandi

Giuseppe Bandi

 

Il libro diario di Giuseppe Bandi

Il libro diario di Giuseppe Bandi

 

La vicenda ispirò a GB. Piccolini, una bella e forte tragedia.) pensoso e raccolto nel suo mantello bruno; e che il mio cuore era aperto a tutte le illusioni più vaghe e più fantastiche, che mai sieno buone ad ammaliare l’anima di un innocente peccatore che sogna. Adesso io misuro da quel che provai in quel giorno, ciò che gli altri, miei compagni, debbono aver provato; e dico che quel ciel ci parve più azzurro del cielo di Toscana e di Lombardia, e venticelli ci parvero imbalsamati d’inebrianti profumi, il sole ci sembrò più splendido, e più grati ci parvero l’odor dei fiori e il sorriso delle donne, cioè delle rarissime donne che si videro in quel paese di ombrosi e gelosi maschi. Mi pare che le muse siciliane (sicelides musae) intonassero, a’ miei orecchi, nuovi armoniosi inni di guerra; mi sembrava che le loro bianche mani agitassero, dinnanzi a noi, verdi ramoscelli d’alloro; tutti eravamo innamorati della Sicilia, e ci pareva gran ventura il poter morire per lei!”.

 

SEDICESIMA PUNTATA

 

XVI PUNTATA. I BORBONE TIRANNI QUANTO I SAVOIA!!! Non posso fare a meno di leggervi alcune pagine del libro “I garibaldini” di Alessandro Dumas, nel quale si racconta quanto i Borbone non fossero da meno, in fatto di repressioni : “Dall’inizio della guerra del 1848 fu evidente che una viva agitazione stava penetrando fino al cuore della Sicilia e che un comune sussulto stava riavvicinando le tre ben distinte classi della società siciliana, i nobili, i borghesi, il popolo. A quei tempi, il capo della polizia era Salvatore Maniscalco, diventato in seguito tristemente famoso.

Salvatore Maniscalco Capo della polizia borbonica a Palermo

Salvatore Maniscalco Capo della polizia borbonica a Palermo

Veniva dalla gendarmeria ed era il pupillo di Del Carretto del quale curava la protezione personale.

Don Gaetano Filangeri principe di Satriano

Don Gaetano Filangeri principe di Satriano

Giunto in Sicilia col principe Satriano, figlio del celebre Filangeri, in qualità di prevosto dell’armata, aveva presto ottenuto la sorveglianza della città. Continuando nella carriera era stato poi nominato direttore generale della polizia dell’Isola. Spettava dunque a lui, per questa sua qualità, il moto che minacciava di scoppiare. Gli esordi di Maniscalco a Palermo, s’erano tutti risolti a suo profitto. Colto, cortese, pieno d’attenzioni per l’aristocrazia, era stato accolto nei salotti più sofisticati e rispettosi dell’etichetta; a un certo punto, però, scocco’ l’ora in cui bisognava scegliere tra la vita di società e gli ordini che egli diceva di aver ricevuto dal governo. Opto’ per questi ultimi. A Palermo tutti cospiravano, se non attivamente, almeno con le intenzioni; i cospiratori più in vista erano i nobili. Maniscalco decise di rompere ogni rapporto con loro; quando i sintomi d’agitazione, ispirati dalle vittorie di Montebello e di Magenta, si trasformarono in più aperte manifestazioni dell’aristocrazia, egli prese una ventina di sbirri, che col pretesto di disperdere un assembramento di faziosi, invasero il casinò, fracassorono i vetri, spensero i doppieri e, disposta l’evacuazione del luogo, ne chiusero per sempre le porte. Era l’epoca delle nomine dei nostri generali al maresciallato e dei titoli dati col nome di una vittoria. Il capo della polizia ricevette il soprannome di Smuccia Candela, vale a dire Spegni candela. La brutale aggressione di Maniscalco dette i suoi frutti. Vuoi per la forza dei nobili, vuoi per la forza stessa delle cose, una insurrezione armata scoppio’ a Santa Flavia, piccolo villaggio a 11 miglia da Palermo. La polizia ha la meglio, reprime il movimento e fa un centinaio di arresti. Un doppio sentimento si sviluppa allora fra i siciliani : bisogno politico di miglioramento delle condizioni del paese; odio personale contro la polizia e il suo capo. Inutile aggiungere che sopra tutto ciò aleggia sempre crescente, l’antagonismo fra siciliani e napoletani. Vediamo lo sviluppo e seguiamo il corso di questi due sentimenti. Un giorno mentre Maniscalco stava varcando la porticina laterale della cattredale, un uomo con mezza faccia coperta da un cappello a larghe tese e l’altra metà da una barba rossa, punta diritto contro il capo della polizia, si ferma davanti a lui e, pronunciando due sole parole, muori miserabile, lo colpisce con una coltellata. Maniscalco cade a terra lanciando un grido; lo credono morto come Pellegrino Rossi (ministro degli Stati Romani sotto Pio IX, pugnalato a morte sulle scale del Palazzo di Cancelleria nel 1848), ma era solo gravemente ferito. L’attentatore scompare senza che, malgrado tutte le ricerche della polizia, si sia potuto mettergli le mani addosso. Furono eseguiti 20 arresti, 5 o 6 persone furono poste alla tortura, ma inutilmente.

Il re di Napoli compensa la ferita di Maniscalco, già ricchissimo, con una rendita annua di duecento once d’oro. Ha inizio allora un periodo di terrore regio durante il quale il Maniscalco cessa di rappresentare una tesi politica per diventare strumento di odio personale. È Narciso sotto Nerone; è Oliver Le Dain sotto Luigi XI. Recluta bande di malfattori, li arruola, ne fa un’appendice della sua polizia; questa orda di ladri e di assassini è sguinzagliata per Palermo e dintorni. Gli sbirri di Maniscalco hanno l’ordine di arrestare il padrone del caffè Fiano – Cattolica; in casa sua trovano solo la moglie e la figlia, la moglie ancora levata, la ragazza coricata; non vogliono credere alle spiegazioni della donna, sull’assenza del marito e così la madre costretta con la forza a non muoversi e la figlia viene violata sotto i suoi occhi. Un contadino di nome Licata, sfugge alle ricerche del Maniscalco; sua moglie incinta e i suoi figli vengono gettati in carcere, finché Licata non si costituisce per restituire la libertà alla sua famiglia…”. Il seguito del racconto di Alessandro Dumas alla prossima puntata.

Alessandro Dumas

Alessandro Dumas

 

DICIASSETTESIMA PUNTATA

Riprendiamo il racconto di Alessandro Dumas “I Garibaldini”. Si formò in quel tempo un triumvirato subalterno; lo componevano il capitano d’armi Chinicce, il commissario Nealato e il colonnello De Simone. I triumviri gareggiavano in fantasia per inventare nuovi supplizi. Inventano lo strumento angelico e il berretto del silenzio. Il berretto del silenzio è una specie di tampone dell’angoscia, di sbadiglio traumatico. Lo strumento angelico è una maschera di ferro che ingabbia la testa, la comprime per mezzo di una vite e la frantuma, così millimetro per millimetro. Mi hanno mostrato delle manette che, per quanto esili siano i polsi destinati a sopportarle, non possono chiudersi senza penetrare nelle carni fino all’osso. Fu rinnovata la tortura fino al 1809 dagli spagnoli contro i soldati francesi; l’uomo non viene appeso per il collo e nemmeno per i piedi, ma per la vita. Queste crudeltà colpirono l’aristocrazia, ritenuta da Maniscalco, istigatrice dei tumulti. Si ingannava: l’aristocrazia era paga di sollevare il popolo, cospirava essa stessa contro quel governo che come disse un inglese, è la negazione di Dio. Intanto la Sicilia vedeva che la Lombardia, i Ducati, la Toscana, le Legazioni, unendosi al Piemonte entravano in un’era di pace e di benessere, le catene di Napoli continuavano a opprimere l’Isola, sotto il regime dilapidatore della proprietà, disonorante per l’individuo, generatore di avvilimento e di miseria! Era troppo, la rivoluzione diventava incombente. Maniscalco non tenta neppure di riconquistare gli animi, disarma le braccia. Le perquisizioni si moltiplicano in ogni casa per sequestrare fucili, sciabole, baionette. Nel fuoco delle perquisizioni nasce un cosiddetto comitato siciliano del bene pubblico; è composto da esponenti della nobiltà, della borghesia e del popolo. Dappertutto si aprono sottoscrizioni per l’acquisto di armi e munizioni. Ci si prepara e si aspetta. La polizia annusa e presagisce la rivoluzione; non era difficile, la rivoluzione non era più qua o là, era dovunque, era nell’aria. Arriva così, la notizia della unificazione della Toscana, dei Ducati e delle Legazioni al Piemonte. L’influenza che Vittorio Emanuele esercita con la sua sola lealtà è perché è un principe progressista. Tra un pugno di monarchi reazionari, penetra in Sicilia. La unificazione della Sicilia al Piemonte è un patto tra nobili, la borghesia e il popolo.
Su un solo punto c’è discussione. Occorre insorgere subito? Ovvero si deve fare attendere ancora? I rappresentanti della nobiltà e della borghesia sono per l’attesa; i capi del popolo sono per l’insurrezione. Maniscalco dava la testa al muro; si sentiva sotto il peso di un avvenimento che non poteva prevenire. Raduno’ tutti i commissari di polizia nella notte dal 2 al 3. Dichiarò di non essere in grado di impedire lo scoppio della rivoluzione e avvertì che bisognava accontentarsi di soffocarla, una volta scoppiata. La città era percorsa come un fremito ansioso. Durante la giornata del 3 fece provviste per dover restare molti giorni in casa. La sera si riuniscono i parenti e si chiudono le porte. Gli uni sanno ciò che sta per accadere, gli altri sentono che sta per accadere qualcosa. Disgraziatamente, verso le otto della sera, Maniscalco riceve da un monaco la notizia di ciò che sarebbe accaduto durante la notte, il nome del traditore è rimasto ignoto. Il capo della polizia si precipita dal generale Salzano, comandante la piazza, e fa circondare il convento.

Il convento della Gangia, dove avvenne l'attacco all'eroe Pietro Riso e ai suoi compagni rivoltosi.

Il convento della Gangia, dove avvenne l’attacco all’eroe Pietro Riso e ai suoi compagni rivoltosi.

 

Riso era già sul posto con 24 congiurati; ma gli altri non possono raggiungerlo. Lo raggiungeranno sicuramente durante la notte; Riso conosce i suoi compagni, saranno al convento all’ ora stabilita. Spunta l’alba; Riso chiude una finestra e vede la bloccata dai soldati e dallartiglieria. Gli altri sono del parere di abbandonare tutto e che ciascuno: si salvi chi può. Ma Riso dall’imposta socchiusa fa fuoco sui napoletani. Da quel momento è cominciata la lotta mortale. I cannoni sono spianati a zero davanti alla porta. Due salve la fanno saltare in pezzi che vanno a conficcarsi nella parete del campanile che dà sul chiostro. I napoletani irrompono alla baionetta. Il superiore del convento si lancia verso di loro; viene sventrato. I 27 eroi comandati da Riso fanno miracoli; per due ore si combatte di corridoio in corridoio, di cella in cella.

Ad un certo momento il Riso raduna i suoi i suoi uomini e tenta una sortita dalla stessa porta che i cannoni avevano abbattuta. I napoletani ripiegano, ma ripiegando sparano. Riso cade colpito da una palla che gli spacca la coscia sopra il ginocchio. Dieci o dodici degli altri restano prigionieri. Riso tenta di rialzarsi; due uomini gli si avventato addosso e gli scaricano a bruciapelo i fucili nel ventre. Pietro Riso cade una seconda volta, ma è ancora vivo. Lo prendono, lo caricano su una carretta e lo fanno girare per le vie della città come un sanguinoso trofeo. La carretta si ferma a tutti gli incroci, in tutte le piazze; gli sbirri, i gendarmi, gli uomini della polizia arrampicati sulle ruote, sulla faccia del morente… Un uomo si dedicò a portare la grande notizia in ogni parte dell’Isola. Era Rosolino Pilo.

L'eroe risorgimentale Rosolino Pilo

L’eroe risorgimentale Rosolino Pilo

Il 10 aprile sbarco’ a Messina; dopo 10 anni di proscrizione tornava nella terra natia che, non soltanto si stava organizzando il corpo di spedizione, ma che alla testa dei volontari vi era Garibaldi.

Rosolino Pilo percorse la sicilia in lungo e largo. Infaticabile, scriveva su ogni muro “Arriva Garibaldi! Viva Garibaldi Viva Vittorio Emanuele!”.

Un gendarme della polizia borbonica

Un gendarme della polizia borbonica

 

Ogni villaggio ebbe il suo avvertimento, ogni contadino poté leggerlo o farselo leggere. Un altro patriota, Giovanni Corrao, fece altrettanto. Fu così che per rispondere a quell’imenso grido con un colpo di tuono, Maniscalco fece arrestare come volgari malfattori il principe Pignatelli, il principe Niscemi, il principe Giardinelli, il cavaliere Sangiovanni, il principe Ottavio Lanza, il barone Riso e il figlio maggiore del duca di legiaro… “. Come abbiamo potuto leggere, non resta che chiederci: Ci voleva un Maniscalco in Sicilia per scatenare la rabbia del popolo nei confronti dei Borbone e per vedere, ahimè, in Vittorio Emanuele di Savoia, il principe liberatore? Alla prossima puntata.

 

DICIOTTESIMA PUNTATA

 

Il 14 maggio a Salemi, Giuseppe Garibaldi, con un altro manifesto si autoproclamo’ Dittatore di Sicilia.

La lapide dell'editto di Garibaldi a Salemi

La lapide dell’editto di Garibaldi a Salemi

“Io, Giuseppe Garibaldi, comandante in capo delle forze nazionali in Sicilia, per invito dei notabili ed in seguito alle deliberazioni dei Comuni dell’Isola; considerato che in tempo di guerra è necessario accentrare in un solo uomo i poteri civili e i poteri militari, Decreto: In nome del Re Vittorio Emanuele assumo la dittatura in Sicilia.

 

Il manifesto dell'editto di Garibaldi a Salemi

Il manifesto dell’editto di Garibaldi a Salemi

 

Il vero siciliano, davanti ad un editto del genere: la donna se ne sta impassibile, avvolta col suo nero scialle e maschera con una mano il viso stravolto, per poi, farsi un velocissimo Segno della croce; l’uomo più istruito porta la mano destra sui pantaloni e stringe i genitali, pronunciando la seguente frase in latino maccheronnico “Terque, quaterque testicula tactis, pilis defixit usque ad sanguinem, scalogna fugata est!; il popolano, invece, non si scompone per nulla, rimane fermo, fissa gli occhi sul manifesto e aspettando che qualche alfabeta lo legga per lui, accenna minimamente ad una mezza smorfia, poi, con un larvato e breve cenno di sorriso sarcastico, si porta la mano, destra o sinistra che sia, sulla patta dei pantaloni e, alla Michael Jackson, scompone e ricompone dall’esterno quella appendice del corpo che esprime la sua virilità ed esclama : “Mah…!”. Per chi non è di questa terra significa poco e nulla, ma per noi siciliani, gli occhi “spirdati delle donne, la mimica, la postura, la comunicazione gestuale, la comunicazione visiva, e, per chiudere, una esclamazione fonetica, ma in sordina, del genere, equivalgono ad una arringa difensiva degna di un principe del Foro, in una udienza di tribunale! A causa della scarsa presenza di siciliani nelle fila dei garibaldini e per rinforzare la spedizione impegnata a proseguire la conquista dell’Isola e poi del Sud dello Stivale, il governo piemontese pensò di inviare da Genova 21 mila uomini che giunsero a bordo di 34 navi. Secondo Bixio, come emerge dagli Atti ufficiali, Garibaldi aveva al seguito 15 mila uomini, di cui 6 mila veneti, 5 mila lombardi, mille toscani e 3 mila siciliani. Il 17 maggio, Giuseppe Garibaldi nominò Francesco Crispi Segretario di Stato ad Alcamo.

Francesco Crispi nominato da Garibaldi Segretario di Stato in Sicilia

Francesco Crispi nominato da Garibaldi Segretario di Stato in Sicilia

Il Crispi ricoprì quella carica fino al 2 giugno, quando lo stesso Garibaldi costituì a Palermo un Governo provvisorio, di cui lo stesso Crispi fece parte, auspicando un’annessione incondizionata ai Savoia.

Il messinese Giuseppe La Farina inviato in Sicilia dal Cavour

Il messinese Giuseppe La Farina inviato in Sicilia dal Cavour

 

La concorrenza dell’avversario di Crispi, Giuseppe La Farina, non si fece attendere. Il messinese che si trovava a Torino al seguito di Cavour, venne in Sicilia, inviato dallo stesso Capo del governo piemontese per spodestare il Crispi, ma ben presto dietro la spinta di quest’ultimo, Garibaldi lo espulse dalla Sicilia e Cavour, di rincalzo, inviò in Sicilia il suo nuovo emissario, Agostino Depretis.

Agostino De pretis inviato in Sicilia come emissario del governo piemontese, dal Cavour

Agostino De pretis inviato in Sicilia come emissario del governo piemontese, dal Cavour

 

Ribellioni, in quei giorni, si susseguirono a Castelvetrano, Cefalù e Termini, seguite a Girgenti, Menfi, Trapani e Mistretta. A Palermo, intanto si concentravano le truppe borboniche e Francia e Russia prendevano le distanze dal Regno piemontese, additato come l’artefice della spedizione garibaldina in Sicilia. All’alba del 27 maggio, mentre le truppe borboniche cercavano di sedare le rivolte, Garibaldi entrò a Palermo e, aiutato dai palermitani insorti, divenne anche il capo di un folto gruppo di rivoltosi. Il dittatore iniziò ad emanare editti di ogni genere, come quello del 22 giugno, con il quale proclamo’ :”Le congregazioni esistenti in Sicilia, sotto il nome di Compagnie e Case di Gesù e del SS. MO Redentore, sono disciolte. Gli individui che ne fanno parte sono banditi dal territorio dell’Isola per essere stati sostegni del dispotismo Borbonico. Le loro proprietà restano incorporate al demanio dello Stato”. Un siciliano alla lettura dell’editto esclamò: “E accumincianu a futtirisi tutti cosi!!!” Giuseppe Garibaldi era ben noto per la intolleranza verso le congregazioni religiose e l’intera gerarchia ecclesiastica, ma solo per sete di denaro, come successe, del resto, con l’appropriazione delle Casse dei Borbone a Palermo che, peraltro, vennero alleggerite, prima, anche dagli alti ufficiali dell’esercito Borbonico. Si diede inizio, così, alla requisizione di mezzi, immobili e proprietà terriere, tanto che un Ordine religioso, composto da più di trecento frati gesuiti, abbandonò i beni e la Sicilia. Con un altro decreto, emanato per finanziare la spedizione che si protraeva oltre misura, Garibaldi ordinò l’emissione per un importo di 400 mila ducati, da restituire in futuro e quando si sarebbe completata l’unità d’Italia! Per dovere di cronaca i siciliani a distanza di più di 150 anni aspettano ancora il rimborso di capitale ed interessi!!! Alla prossima puntata.

 

DICIANNOVESIMA PUNTATA

 

Con l’arrivo del piemontese Depretis, inviato da Torino con il titolo di Proconsole, i siciliani cominciarono a rimpiangere i Borbone, visto che nel giro di poco tempo, il Prodittatore pensò ad annientare qualsiasi velleità di libertà e di autodeterminazione dei siciliani.

Agostino Depretis Prodittatore di Sicilia, durante l'invasione dei Savoia

Agostino Depretis Prodittatore di Sicilia, durante l’invasione dei Savoia

Il 2 giugno, il governo provvisorio garibaldino emano’ un decreto per vendere le terre, confiscate ai feudatari borbonici, ai borghesi e ricchi commercianti. I contadini si accorsero dello sporco gioco e delle promesse non mantenute da Garibaldi, come lo stesso aveva sbandierato prima: “La Terra ai contadini”, tanto che scoppiarono furibonde proteste. Vi è da ricordare che le tasse imposte dai Borbone ai siciliani erano di gran lunga minori, rispetto a quelle imposte dallo Stato sabaudo e, persino, aumentavano di giorno in giorno in misura vertiginosa. Il 13 giugno venne abolita la bandiera siciliana, sostituendo l’emblema della Sicilia con lo stemma sabaudo. Il 17 giugno, con un apposito editto, la Sicilia diventava parte della proprietà della Corona Sarda, tanto che i soldati siciliani furono assunti in forza alla XV e XVI Divisione sabauda. Il 14 luglio, anche gli uomini della Marina militare siciliana vennero assunti in forza alla Marina sarda. E dire che ancora non se ne parlava del referendum di annessione al Piemonte. Ma quali furono le Nazioni estere che per motivi prettamente economici lasciarono mano libera al Cavour, e quindi ai Savoia, di appropriarsi delle Due Sicilie? L’Inghilterra sin da subito e La Francia anche, però in un secondo tempo perché legata saldamente allo Stato Pontificio.

Il Papa Pio IX Capo dello Stato Pontificio ai tempi della conquista savoiarda del Regno delle Due Sicilie

Il Papa Pio IX Capo dello Stato Pontificio ai tempi della conquista savoiarda del Regno delle Due Sicilie

Addirittura, poco tempo prima si stava organizzando una confederazione degli Stati italiani con presidente Pio IX, quando i Piemontesi si tirarono indietro, rifiutando di far parte di un’ Italia, federata, avversandola in tutti i modi. Al Cavour e al monarca Vittorio Emanuele, che vedevano crescere il debito pubblico giorno dopo giorno e che si erano ridotti peggio dell’odierna Italia, interessavano solo i soldi e quei tesori stavano solo al Sud, per cui il poterli “rubare” ad ogni costo era diventato l’obiettivo principale. Il Cavour condusse un’ Opera continua di corruzione dei generali dell’esercito Borbonico, ai quali diede soldi e promise, persino, la reintegrazione nei ranghi dell’ Esercito piemontese, una volta conquistato il regno Borbonico. E di tradimenti di ufficiali Borbonici se ne registrarono fino a Napoli.

Lo scrittore Carlo Caianello

Lo scrittore Carlo Caianello

Carlo Alianello nel suo libro “La Conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale”, pag. 164, scrisse: Migliaia di foglietti stampati venivano fatti circolare in Sicilia con la scritta “Se l’azione fu rea la reazione è santa; che vale che i tristi la dicano Brigantaggio? Ci avete tolto le armi a tradimento e siamo briganti combattendo senz’armi a viso aperto? Briganti noi, combattendo in casa nostra, difendendo i tetti paterni, e galantuomini voi, venuti qui a depredare l’altrui? Il padrone di casa è il brigante, o non piuttosto voi, venuti a saccheggiare la casa. Se siamo tutti briganti, quel governo che forza tutti a briganteggiare è perverso. Quel governo che si impone con le fucilazioni è spietato e, se prima poteva avere amici fra gli illusi, dopo la prova ha solo oppressi che lo aborrano. E nome stesso di brigante, che fu tanto triste e abietto, noi lo facciamo amare dalle anime gentili e lo renderemo glorioso. È quasi un anno che combattiamo nudi, scalzi, senza pane, senza tetto, senza giacigli, sotto i raggi cocenti del sole o fra i geli dell’inverno, entro inospitali boschi, conquistando con le braccia le carabine e i cannoni, strappando spesso la vittoria a superbissimi nemici… Dicono che combattiamo per rapire; rapire ai piemontesi che non hanno nulla e tutto ci hanno rapito “.

 

VENTESIMA PUNTATA

 

Sul terreno fertile dell’alto grado di miseria raggiunto in Sicilia, la delinquenza serpeggio’ in maniera dilagante. Ma tutto questo non può delegittimare tutti quei valorosi indipendentisti, siciliani e meridionali, che lottarono e che avevano combattuto contro i Borbone prima, assieme a quei valorosi uomini stranieri, in particolare spagnoli che vollero intervenire perché richiamati dai comportamenti assassini dei piemontesi. Il periodo nero di un Sud, vittima del Risorgimento savoiardo, venne fortemente sottolineato da personaggi storici dell’epoca, coinvolti da un ideale patriottico, ma nello stesso tempo vittime di un raggiro che non ebbe nulla a che fare con il sacrificio preposto per la libertà del popolo siciliano e quello meridionale.

Il grande filosofo Voltaire

Il grande filosofo Voltaire

A questo punto, prima di affrontare la “Questione Siciliana” sull’annessione e presentare i vari eroi e i traditori, è bene presentare una nota, non certo stonata, di Francois – Marie Arouet, illustre letterato, filosofo, storico, polemista e poeta francese, conosciuto meglio con il nome di Voltaire : “La Sicilia, fin dai tempi dei tiranni di Siracusa, sotto i quali per lo meno contava qualche cosa nel mondo, è sempre stata soggetta allo straniero; preda successivamente dei romani, dei vandali, degli arabi, dei normanni, come vassalla del Papa, dei francesi, dei tedeschi, degli spagniuoli, quasi sempre odiante i suoi padroni, in rivolta contro di loro, senza peraltro compiere veri sforzi degni della libertà, sempre gravida di sedizioni allo scopo di mutar catene”. L’Inghilterra decise le sorti dell’Isola e i Savoia diedero inizio allo sfruttamento! Sulla Sicilia avevano messo gli occhi in tanti, dagli austriaci che nel 1707 si presentarono in Calabria, pronti a sbarcare in Sicilia, ai francesi e irlandesi. Palermo fu teatro di una rivolta popolare grave e le squadre navali inglesi e francesi fecero la loro apparizione al largo delle coste settentrionali. Prima che la situazione precipitasse irreperibilmente, la Sicilia venne tolta a Filippo V di Borbone e consegnata al suocero Vittorio Amedeo, duca di Savoia, per decisione assunta durante il Congresso Internazionale di Utrecht.

Vittorio Amedeo duca di Savoia

Vittorio Amedeo duca di Savoia

Gli inglesi avevano avuto il loro peso in questo accordo internazionale: Non volendo che gli Asburgo d’Austria, già possessori di Napoli, si prendessero anche la Sicilia, gli inglesi trovarono più conveniente consegnarla al Duca di Savoia che non li impensieriva, né politicamente, né militarmente e che certamente il Savoia sarebbe stato accondiscendente alle loro richieste di favoreggiamento alle loro speculari attività commerciali e imprenditoriali. Tanto per essere più chiari, da quel momento gli inglesi trasferirono un contingente di 6 mila soldati e fecero arrivare a Palermo il nuovo re Vittorio Amedeo a bordo di una nave da guerra inglese. I siciliani furono lasciati dal Savoia a sbrigarsela da soli e a lottare tra loro. Per cinque lunghi anni, il re Vittorio Amedeo fu efficiente in una sola cosa : Esigere le tasse e truffare in modo nuovo e moderno. Poi la Sicilia, come protagonista di una moderna telenovela, passò sotto il governo austriaco per ben 14 anni e poi ancora ai Borbone di Napoli. Ma andiamo per ordine, il primo vicerè austriaco, Nicola Pignatelli duca di Monteleone, venne inviato in Sicilia, dal 1719 al 1722, con il preciso scopo di riorganizzare l’apparato amministrativo, squassato dal precedente periodo di governatorato.

Nicola Pignatelli duca di Monteleone

Nicola Pignatelli duca di Monteleone

La Sicilia poté godere di una ripresa economica nuova con la nascita di nuove compagnie commerciali e con la realizzazione di industrie per la produzione di sapone e carta; nel settore dell’agricoltura venne incentivata la produzione della canna da zucchero, cotone e seta, e con la liberalizzazione del commercio del grano, le coltivazioni di cereali in genere mostrarono un sostanzioso aumento di produzione. In quel periodo, la Sicilia fu interessata da un certo sviluppo economico in quanto venne a determinarsi una fiorente intesa fra austriaci e siciliani. Tanto fu vero che merita di essere evidenziata la figura di un grande personaggio siciliano, Ignazio Perlongo, uno dei maggiori ministri siciliani che alla fine della sua carriera ricoprì il prestigioso incarico di Reggente per la Sicilia nel supremo Consiglio di Vienna. Un suo progetto di rilancio economico “Sul commercio in Sicilia” ebbe grande influenza sulle scelte politiche ed economiche del governo austriaco. Con tale documento, il Perlongo avanzo’ proposte per un completo inserimento dell’Isola all’interno di un’area commerciale euro meditarranea, per il potenziamento delle industrie, delle fabbriche, della produzione agricola e delle attività commerciali. Ma chi fu per la Sicilia, Ignazio Perlongo? Alla prossima puntata.

 

XXI PUNTATA

 

Ignazio Perlongo è stato il padre del grande progetto degli Scambi Euro Mediterranei in sicilia. Pur essendo un giureconsulto di notevole fama, giudice, avvocato fiscale della Gran Corte e del Patrimonio, Consigliere personale dell’imperatore Carlo VI, Reggente per la Sicilia, il Perlongo, non trovò mai un meritato spazio nella storia dell’Isola, eccetto nella sua Naso in provincia di Messina, dove nacque il 5 luglio del 1666 e dove la piazza, antistante casa sua, porta il suo nome.

La cittadina di Naso, in provincia di Messina, che diede i natali a Ignazio Perlongo

La cittadina di Naso, in provincia di Messina, che diede i natali a Ignazio Perlongo

 

Il grande Perlongo realizzò il Portofranco a Messina e, grazie all’esperienza della dominazione austriaca, lasciò, per un po’ di tempo, un’impronta positiva nell’isola. Infatti, la componente baronale, in Sicilia, riuscì a riproporsi come gruppo dirigente ideologico ed economico e, grazie al mecenatismo di molti aristocratici, si vennero a registrare radicali cambiamenti nella politica sociale, nell’insegnamento di nuove discipline e all’introduzione di scambi culturali con i Paesi anglosassoni e francesi; in buona sostanza si andava ad affermare una classe politica siciliana di estremo riguardo. Agli inizi degli anni quaranta Del XVIII secolo, le ideologie politiche nate nel periodo della dominazione austriaca si andavano a consolidarsi e, addirittura, segnavano il solco nella difesa dei diritti che venivano definiti “di interesse siciliano”. In quegli anni vennero pubblicati studi di guureconsulti di estremo pregio, come ” La Concordia tra i diritti demaniali e baronali” di Carlo Di Napoli, Palermo 1744, è la Raccolta dei “Capitoli del Regno” ad opera del Canonico della Cattedrale di Palermo, Francesco Testa, su incarico della Deputazione del Regno. “La Concordia…” del Di Napoli ebbe un ruolo importante nel processo di formazione e consolidamento dell’ideologia politica del baronaggio siciliano. Tanto fu vero che il famoso giurista di Troina (anche lui dimenticato) venne scelto dal principe di Cassaro, feudatario di Sortino, come difensore nella lite che lo contrapponeva alla città che avanzava pretese di autonomia. Il Di Napoli, sostenendo con forza l’esistenza di “Diritti Feudali” originari e inalienabili, rafforzo’ la tesi del “Commilitonismo”, la concordia tra i diritti demaniali, cioè la ripresa del concetto sulla contemporanea e non subordinabile nascita della Monarchia e del Feudo in Sicilia, durante l’epoca romana. Ciò poneva sullo stesso piano feudatari e re che avevano conquistato insieme la Sicilia, dividendosene il possesso e, nello tempo, ribadiva la natura perenne del bene feudale, che non poteva mutarsi, mai in bene demaniale (mentre era possibile il passaggio inverso). Il canonico palermitano, con il suo trattato, sottolineava ed evidenziava “L’esistenza di un Jus Siculum”, connaturato alla storia isolana, unitaria e continua a partire dai Normanni, con delle specifiche caratteristiche “nazionali”, differenti, quindi, dal Diritto Napoletano. Conseguenza di ciò era, tra l’altro, il ruolo autonomo e “nazionale” del Parlamento, dei Tribunali e delle Corti, dal potere sovrano. Desidero ricordare quanto si deve allo storico Rosario Gregorio, nella ricerca ancora di una nazionalità siciliana.

Bassorilievo in marmo dello storico Rosario Gregorio

Bassorilievo in marmo dello storico Rosario Gregorio

 

Il Gregorio, nato a Palermo il 23 ottobre del 1753, agli inizi del 1800 e alla ricerca di una nazionalità siciliana, approfondi il tema, cercando di coniugare due dimensioni fondamentali, il diritto e la storia, quando affronto’ la difesa di usi e costumi, la garanzia delle specificità istituzionali di un popolo riscontrandone, nei secoli, la funzione primaria che aveva regolato l’ordine civile, sociale, giudiziario, economico, la cultura e le arti.

Francesco Testa, canonico della cattedrale di Palermo, autore dei "Capitoli del Regno"

Francesco Testa, canonico della cattedrale di Palermo, autore dei “Capitoli del Regno”

 

Gli scritti e il pensiero di Rosario Gregorio hanno esaltato il principio della Sicilia Nazione, fondata su un sistema politico pur sostenendo la necessità di una nuova monarchia e la legittimazione delle pretese baronali, ma rimasero soltanto idee! L’aristocrazia siciliana di quel tempo contava su una ricchezza tale da garantire lavoro e beni alla manodopera che era alle dipendenze, mentre la stessa cosa non accadeva sul suolo italico. Il benessere economico nell’isola consentiva anche il proliferare di lasciti e offerte alle Chiese e agli Ordini religiosi. I conventi e le chiese diventarono centri di cultura, di scolarizzazione e di assistenza sociale, sia nei grandi che nei piccoli centri. Si pensi che la cittadina di Ragusa Ibla, di poche migliaia di abitanti, contava 36 chiese e ben 11 conventi, oltre al Duomo di San Giorgio. Quest’ultimo, quale Insigne Colleggiata, vantava una presenza ecclesiastica composta da 50 sacerdoti, fra cui docenti, medici, avvocati, agronomi, che, oltre alla vocazione religiosa, esercitavano anche la loro professione.

Carlo Di Napoli, autore de "La Concordia...".

Carlo Di Napoli, autore de “La Concordia…”.

 

VENTIDUESIMA PUNTATA

Dalle precedenti puntate, mi auguro, sia emerso un valore abbastanza alto fra i siciliani, tutto proteso alla voglia autonomistica, come del resto siano stati notati sofferenze, morti e distruzioni, sempre per i siciliani, con la imposizione dell’Unità italiana. Ed oggi, non possiamo fare a meno di dirlo che questa Sicilia ne ha piene le scatole delle menate sull’unità. Adesso continuiamo ad evidenziare le varie figure di uomini da definire veri patrioti, altri ambigui, opportunisti, altri ancora, traditori ed ascari, venduti ai dominatori stranieri. Ai lettori libertà di giudizio! Con la rivoluzione siciliana del 1848, prendeva piede, nell’Isola, il forte desiderio di una autonomia sociale e di popolo che consentisse di porre in essere uno Stato italiano federalista.

Il famoso giurista Emerico Amari di Palermo

Il famoso giurista Emerico Amari di Palermo

Fra i promotori di quella politica autonoma e federalista vi furono uomini come Emerico Amari e Francesco Ferrara che credevano in una Sicilia libera, tale da respingere le mire di conquista da parte di popoli stranieri.

Prof. Francesco Ferrara di Palermo

Prof. Francesco Ferrara di Palermo

Già nel 1847, Emerico Amari, palermitano e giurista di fama, docente di diritto penale all’università madonita, si era fatto conoscere come un forte oppositore liberale al Regno dei Borbone, durante un comizio tenuto a villa Giulia. L’Amari venne arrestato proprio due giorni prima dello scoppio dei Moti insurrezionali nella Palermo del ’48 e fu liberato dopo pochi giorni dalla rivoluzione, in concomitanza del ritiro dell’ Esercito Borbonico a Napoli. Ma nel 1849, quando le truppe napoletane rioccuparono Palermo e si impossessarono nuovamente della Sicilia, Emerico Amari ed il suo amico Francesco Ferrara riuscirono a sottrarsi all’arresto e fuggire, prima a Malta e successivamente a Genova. Nel 1857, Emerico Amari ebbe un grande successo pubblicando l’opera “La critica della scienza delle legislazioni comparate”, un corposo saggio di Filosofia del Diritto storico, per il quale, nel 1859, ebbe assegnato l’incarico di docente di Filosofia del Diritto presso gli studi Superiori di Firenze. Nel 1860, quando la Sicilia venne “liberata” dai Borbone, Emerico Amari tornò a Palermo, con un incarico, dato dai Savoia, volto ad elaborare uno studio sulla possibilità di risanare il Meridione e portarlo alla pari delle Regioni del Nord. Ovviamente, visto quello che i piemontesi e Garibaldi avevano sottratto alla Sicilia in termini di tesori e danaro, al noto Giurista e docente sembrò un forte segno di sfottò e ben presto declino’ l’incarico, rifiutando persino la cattedra all’ Università palermitana, offerta da Michele Amari, rendendosi perfettamente conto che la spedizione garibaldina fosse stata un vero e proprio imbroglio, con una forzata annessione al regno savoiardo, persino dietro a una violenta e sanguinosa conquista.

Michele Amari, politico e storico palermitano

Michele Amari, politico e storico palermitano

Su proposta dell’intero schieramento politico parlamentare, il professore Emerico venne eletto deputato nel 1867, ma dopo un anno si dimise per la immatura scomparsa del figlio e, dopo essersi dedicato alla sua Palermo come rappresentante al Consiglio municipale; Il 20 ottobre del 1870 morì, giorno in cui, Roma divenne Capitale d’Italia e anche il giorno in cui, per la Sicilia, iniziò una fase di decadenza irreversibile. Michele Amari, anche lui palermitano, era nato nel 1806, non era parente del professore Emerico ed era stato anch’esso fautore dei Moti insurrezionali del ’48 contro i Borbone, nonché autore de “La Fondazione della monarchia dei Normannni in Sicilia” e “La guerra del Vespro Siciliano”. Michele Amari, dopo aver appoggiato la spedizione dei Mille, divenne un convinto assertore dell’ annessione siciliana al regno piemontese e ricoprì la carica, prima di ministro degli Esteri della Prodittatura siciliana nel 1860 e, sempre nel medesimo anno, quella di ministro della Pubblica Istruzione in Sicilia.

 

VENTITREESIMA PUNTATA

 

Da non dimenticare un’altra figura di spicco piena di luci ed ombre, cioè Giuseppe La Farina, il quale nacque a Messina nel 1815 e a vent’anni si laureò in legge.

Giuseppe La Farina

Giuseppe La Farina

 

Giuseppe La Farina, sin da giovine, partecipò ai moti insurrezionali del 1837, dichiarandosi avversario dei Borbone, tanto che costretto all’esilio, a Firenze, dove pubblicò numerose opere storiche, fra le quali “Storia d’Italia narrata al popolo” e diresse, persino, diversi giornali come il quotidiano fiorentino “L’Alba”. Dopo la rivoluzione del 1848, ritornò in Sicilia, dove ricoprì alcune cariche, ma subito dopo la repressione del ’49 ad opera dei Borbone, fu costretto all’esilio, recandosi in Francia. Ben presto, però, il La Farina abbandonò le idee repubblicane e si stabili a Torino, diventando filo-savoiardo. I contatti con Camillo Benzo Conte di Cavour, portarono Giuseppe La Farina ad abbandonare l’idea della condivisione dei metodi insurrezionali mazziniani e ad appoggiare il disegno della conquista del Sud, da parte dei piemontesi. Il giurista messinese divenne, così l’amico di fiducia del Capo del Governo dei Savoia nella spedizione dei Mille e fu un convinto assertore dell’annesione della Sicilia ai piemontesi. Il piano di Cavour per l’accaparramento del Sud, appoggiato da parecchi siciliani, come il La Farina ed altri rinnegati napoletani, venne portato a termine, servendosi di Garibaldi, considerato persino l’emblema della libertà, dal popolo siciliano e di tutto il Meridione d’Italia. E ad iniziare, la Sicilia, con l’aiuto interessato dei garibaldini, si consegnò e si fece lapidare di tutti i propri beni, dagli affamati e predatori piemontesi, anche se Giuseppe Mazzini gridava : “… Che si sorga, quando si sorge, col grido unanime, d’ogni ora, di Viva l’Italia! Viva la Nazione! Unità! Roma! Tanto che il carattere dell’iniziativa diventi nostro; guai se gridano Viva il Piemonte!”.

Giuseppe Mazzini

Giuseppe Mazzini

 

Ma chi era Mazzini per i piemontesi? : “Un esule che dalla lontana Londra sputava veleni e inondava i popoli di idee sovversive contro la monarchia ed, inoltre, le sue parole hanno provocato la morte di migliaia di uomini, invaghiti da un ideale errato, non facendo nulla per aiutare i siciliani a liberarsi dal cappio Borbonico! “. Un riflessione spontanea tutta siciliana: ” Però… Quanto furono bravi i piemontesi!!”. Addirittura, la domanda di quanti siciliani e meridionali morti ci siano stati ad opera loro, non se la sono mai posta? Da evidenziare, un personaggio della rosa degli “eroi risorgimentali” che ebbe il coraggio di dichiararsi “Pentito”.

Luigi Settembrini

Luigi Settembrini

 

Luigi Settembrini, nato a Napoli nel 1813, partecipò ai Movimenti per l’unità d’Italia e nel 1851, venne condannato prima a morte e, successivamente gli venne commutata, la pena, all’ergastolo, come cospiratore; nel 1859, venne fatto evadere, aiutato dal figlio che riuscì a far dirottare la nave, sulla quale era imbarcato da deportato, verso l’Irlanda, lasciando la rotta verso l’Argentina. Luigi Settembrini, raggiunse il regno anglosassone, per poi, con l’avvento dei Savoia, ritornò a Napoli dove riprese l’insegnamento universitario e nel 1873 venne nominato senatore del Regno. Luigi Settembrini, eroe risorgimentale, nel 1870 scrisse:”La colpa fu di Ferdinando II, il quale, se avesse fatto impiccare me ed i miei amici, avrebbe risparmiato al Mezzogiorno e alla Sicilia tante incommensurabili sventure. Egli fu clemente e noi facemmo peggio!!!”. . Questa è l’ultima puntata della prima parte della storia siciliana, degli ultimi due secoli. Con la seconda parte ci soffermeremo nei fatti più salienti del secondo dopo guerra e di dare risalto agli eroi, agli opportunisti, agli ascari e ai traditori della nostra Patria “Sicilia”.