OMAGGIO A DINO CAMPANA

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Recensioni ed Eventi

A cura di Clara Artale

Dino Campana è un poeta. Dai colori accesi, luci e soprattutto ombre. Un pittore delle parole. Un visionario delle proprie tenebre. Piccoli ferimenti e grandi sanguinamenti, questo tra le sue pagine. I Canti Orfici profumano d’eterno e sconforto, come l’amore del resto, quello vero che decanta lui. Sanno di Euridice e Orfeo insieme e di Hermes, della sua mano che la trattiene. Uso di aggettivi, avverbi, figure retoriche e figuri, paura del risveglio e gioia nell’oblio. Oscurità tra veglia e sogno, perdizione fra foreste e chiese abbandonate. Il suo destino ha passi che ripropongono le stesse orme di Rimbaud; mentre il poeta maledetto fugge in Africa e si abbandona ai più disparati mestieri per annegare la sua angoscia, Dino trova solo la pazzia. Non abbandonerà mai la poesia; i rintocchi della sua penna sono lontani dal regalargli la pace ma sarà sua compagna, fino alla fine.

 

Nacque a Marradi il 20 agosto del 1885 e morì il I marzo del 1932, a Scandicci. Trascorre l’infanzia nel paese natìo, in apparente serenità; intraprese il liceo e nel 1903 conseguì la maturità, in provincia di Torino. Rientrò nel proprio paese e ripresero più forti le crisi nervose che già da qualche tempo iniziavano a tormentarlo. Acuite da un complesso rapporto con la madre. A Bologna s’iscrive al corso di laurea in Chimica pura e nel 1904 entra nella scuola di ufficiali di complemento di Ravenna; non supera l’esame per sergente e viene prosciolto dal servizio, in seguito congedato. Cambia città, Firenze, e facoltà, per tornare a Bologna, pochissimi mesi dopo. Poi la Svizzera, e ancora la Francia. Nel 1907 parte alla volta dell’Argentina; c’è chi, da qui, lo chiama il poeta dei due mondi e chi nega che sia partito davvero. Successivamente Dino è a Genova, poi in Belgio.

 

Campana esplicitò il suo male oscuro con un bisogno tagliente di fuggire e abbandonare tutti ma soprattutto tutto; una vita vagabonda sembra la sola strada percorribile. La reazione della famiglia, della comunità paesana e in seguito dell’autorità pubblica, fu quella di considerare le sue stranezze come follia. A ogni fuga, che si materializzava in viaggi, seguiva il ricovero in manicomio, secondo i “canoni” del sistema psichiatrico di quei tempi e per le preoccupazioni cieche dei familiari. Nel 1913 Campana si reca a Firenze; si presenta nella redazione Lacerba a Giovanni Papini e Ardengo Soffici, suo lontano parente, a cui consegna il manoscritto “Il più lungo giorno”. Verrà perduto e ritrovato 7 decenni dopo nello stesso punto dove fu abbandonato. Dino dopo qualche mese torna a Firenze chiedendo del suo libro, peraltro consegnato nell’unica copia che possedeva. Gli viene detto che nessuno sa dove sia. Inutile soffermarsi sulle ripercussioni psichiche che l’evento ebbe; Dino si rimette a lavoro e riscrive il suo capolavoro Canti Orfici, con aggiunte e modifiche. Saranno ancora più forti i riferimenti alla mitologia. Definirà Soffici e i suoi soci sciacalli. Come dargli torto!

 

Nel 1914 Dino incontra Sibilla Aleramo, autrice del romanzo “Una donna”; le due anime iniziano una tormentata e tormentosa relazione. Il carteggio pubblicato nel 2000 “Un viaggio chiamato amore – Lettere 1916-1918” ne raccoglie le fila e custodisce la preziosità del cristallo incastonato nel sentimento.

 

«Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili…»

 

Nel 1918 viene ricoverato nell’ospedale psichiatrico presso Scandicci. Tradito dal filo spinato mentre intenta la sua ultima fuga, la più poetica, forse. Poiché non compiuta. O forse perché fu la sola vera, che lo condusse alla Libertà.

«Ti bacio e ti butto vita mia, come un pezzo di pane, che passi attraverso le ossa come un filo di rame…»

E Sulla Strada, sul suo lungo errare, qualcuno ha dedicato un diamante raro a Dino, idealmente dedicato al suo vagare.  «Il sergente che si perde nel freddo e nei bordelli è il poeta Dino Campana. I genitori – afflitti dalle sue stranezze – pensarono d’inquadrarlo dentro un’accademia militare. Come sempre, Dino fuggì. La canzone è cruda come una vita perduta, incompresa, dentro e fuori dai manicomi, un dolore che l’elettroshock ha portato fin dentro l’anima e le ossa di Campana. È la barbara elettricità che illumina la Belle époque, il trapasso di due secoli, ed è un omaggio a un poeta spiantato, al suo pellegrinaggio, alla sua tomba bombardata, come il suo ricordo e la sua opera volutamente dimenticata, combattuta dai coetanei (Giovanni Papini che lo tenne a distanza e Ardengo Soffici, che ne perse – o nascose – il manoscritto dei Canti Orfici).» “Belle époque”; l’autore è Francesco De Gregori.

Concludo con i versi di Dino, dedicati alla notte, alle profezie, forse.

La Chimera, Notturni, da “Canti Orfici”.

 

Non so se tra rocce il tuo pallido

Viso m’apparve, o sorriso

Di lontananze ignote

Fosti, la china eburnea

Fronte fulgente o giovine

Suora de la Gioconda:

O delle primavere

Spente, per i tuoi mitici pallori

O Regina o Regina adolescente:

Ma per il tuo ignoto poema

Di voluttà e di dolore

Musica fanciulla esangue,

Segnato di linea di sangue

Nel cerchio delle labbra sinuose,

Regina de la melodia:

Ma per il vergine capo

Reclino, io poeta notturno

Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,

Io per il tuo dolce mistero

Io per il tuo divenir taciturno.

Non so se la fiamma pallida

Fu dei capelli il vivente

Segno del suo pallore,

Non so se fu un dolce vapore,

Dolce sul mio dolore,

Sorriso di un volto notturno:

Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti

E l’immobilità dei firmamenti

E i gonfii rivi che vanno piangenti

E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti

E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti

E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.