ARTE
A cura di Nicola Micieli
Sulle pagine documentarie di questo catalogo, e nella concretezza delle opere ordinate e installate nelle sale delle temporanee del Maca, scorrono gli ultimi dieci anni della ricerca in progress di Maria Credidio, versatile artista di ormai lungo corso, da annoverarsi tra le più interessanti personalità attive oggi in Calabria. L’omaggio che le viene ora reso nel museo di Acri, è un sicuro attestato di valore. Nei suoi dodici anni di vita, difatti, tra gli altri importanti impegni programmatici, questo giovane e già qualificato osservatorio giroscopico sull’arte contemporanea, è andato proponendo messe a fuoco su trascorse e attuali evidenze artistiche calabresi, operative nella e fuori regione. Una delle quali, prestigiosa, è peraltro il suo fondatore e direttore artistico, Silvio Vigliaturo, magistrale scultore in vetro, e pittore, alla cui opera è dedicata la sezione permanente del museo.
Sono dieci anni di ricerca, questi in oggetto, che possono dirsi della raggiunta maturità artistica di Credidio e che si configurano come una vera e propria altra maniera. O, se vogliamo, una seconda maniera di ineccepibile identità e tenuta, omogenea quanto riccamente declinata rispetto a un percorso che negli antecedenti trenta anni, Credidio aveva compiuto all’insegna della diversità nella continuità dell’arte. Uso in corsivo, per racchiudere in una formula verbale quei tre quarti della sua storia, il titolo pertinente, desunto dall’acuta presentazione di Luigi Tallarico, d’una monografia riepilogativa del suo lavoro, uscita presso Ferrari nel 2006, e mi permetto solo la marginale osservazione che forse sarebbe stato ancor più esatto parlare di “discontinuità” anziché di diversità.
Il 2006 può essere considerato anche l’anno che segna il passaggio cruciale nella storia artistica di Maria Credidio: dal versante della ricerca dinamico-emozionale giocata tra gestualità liberatoria di energia cinetica, che investe la materia e la plasma in mobili forme variamente scomposte, e siamo in un’area climatica diciamo calda, al versante costruttivo-razionale che fondato sul progetto e governato con rigoroso controllo degli interventi, si apre a una modalità formatrice che assegneremmo, invece, all’area del freddo, che è poi, a dire il vero, non pienamente rispondente alla finezza della temperatura estetica delle opere.
Sino al 2006 Credidio si era espressa per alterni cicli tematici e stilistici trascorrenti da una residuale, ambigua figurazione diffusamente allusiva e non di rado dichiaratamente simbolica, a un’astrazione d’empito persino passionale, tra espressionismo lirico e informale. In entrambi i casi, non la neutralità dello sguardo mirato alla qualità della forma; anzi, una certa anche concitata animazione, essendo pervase, le partiture, di umori e sensi umani e non prive di coinvolgimento emozionale e di trasporto espressivo.
Sono portati del sentimento, questi, che Credidio affidava a tutte le componenti espressive del linguaggio pittorico. Dico la materia, in genere sensibile e mossa, che raggiunge l’acme della densità e accidentalità nel ciclo Informale (2000-2006); e il colore risonante di timbri, drammatico per arditi accostamenti e frizioni di neri catramosi, bruni, terre e rossi e gialli e azzurri, che una strategia della luce data per squarci e riverberi organici allo statuto della materia, rende sovreccitati ed enigmatici. Dico, infine, la dinamica ondulare delle linee che scompongono e convogliano i corpi e le masse: forme uniche della continuità nello spazio, diremmo in termini futuristi, di quelle linee alle quali Credidio consegnava i propri boccioniani stati dell’animo e le proprie riflessioni sull’essere e il tempo.
Quanto alla diffusa allusività e alle sottese simbologie, si osserverà che meglio si leggono in ambito figurale, come nel caso delle conformazioni nucleari, tra biologiche e cosmografiche, del singolare ciclo Studio degli angeli (1998-2000); oppure nei fluitanti brani e scie e presenze di aspetti e fenomeni e creature che animano gli oblunghi, visionari “paesaggi” terrestri e marini del ciclo Spatole (1990-1995). I medesimi contenuti sussistono altresì nei dipinti aniconici del ciclo Multimediale, cui appartiene anche il Ritratto post moderno, raffinato nudo di donna che si mostra assorta nell’ascolto, e nel sogno, d’una melodia che par come riflesso delle sfere celesti, disposta a ricevere l’onda sonora, e a compenetrarsene.
Con questo ciclo eseguito tra il 2003 e il 2005, Credidio praticamente chiude il ventaglio delle esperienze del suo primo periodo. Merita notare che intitolava quelle opere alla multimedialità perché, come già nel citato Studio degli angeli, aveva prima disegnato, quindi elaborato al computer (un medium freddo che penso abbia avuto un ruolo primario nella conversione di rotta che andava maturando), infine tradotto in pittura le immagini stroboscopiche di turbolenti masse d’aria, d’acqua, di terra, vortici e convolvoli ed espansioni ondulari che quasi in sinestesia sonora di dizione futurista, paiono ciclopici eventi del caos originario in evoluzione verso un ordine cosmico.
Del Futurismo più volte evocato, bisogna dire che Credidio faceva, nei suoi anni d’esordio, un vero e proprio studio formativo, assumendone poi stabilmente il principio istitutivo del dinamismo. Base, dunque, non già del suo stile, ma della continuità sostanziale d’ordine dinamico, plastico e strutturale della forma nella discontinuità degli stili di volta in volta adottati. Che sono stati poi una sorta di sperimentali esercizi di stile alla Queneau. Il quale scriveva 99 variazioni, su una tastiera linguistica ricca per lessico, sintassi, livelli culturali e registri espressivi, la stessa banale situazione narrativa: “In tram, una mattina…”. Ecco, Credidio assimila la sintassi pittorica in corso nel ventesimo secolo, sperimentando una serie di linguaggi, dei quali si appropria per farne il proprio, transitivo linguaggio. Il quale consiste nella diversa combinazione e modalità d’uso degli elementi formali costitutivi. La qual cosa si verifica anche nella prassi compositiva astratta dell’attuale secondo periodo.
Questo modo nuovo, ma non del tutto inconseguente al pregresso lavoro, penso proprio sia destinato a seguitare e a ulteriormente svilupparsi nel tempo, per essere, come si dichiara a uno sguardo d’insieme, molto articolato e coerente nel ricco campionario di soluzioni strutturali e visive esperite, sempre nello spirito delle variazioni alla Queneau di cui si diceva. Per la sostenuta qualità formale ed estetica delle opere, è altresì evidente che il laboratorio del nuovo corso è stato condotto con ineccepibile proprietà, sia delle idee che degli strumenti linguistici e operativi per tradurre le idee in figure dell’immaginario, qui di derivazione geometrica e di funzionamento vettoriale, segnaletico, spazialista, costruttivo, seriale, e altro. Un funzionamento infine simbolico, nella misura d’uso non espressivo, ma semantico, specie nelle versioni contaminate verbo-visive, che Credidio ne fa quando installa impianti di solidi geometrici, oggetti, cifre grafiche e parole d’ordine teoretico ed esoterico, di tipo pitagorico, per intenderci. E non è nemmeno escluso un livello molto indiretto, e ovviamente tutto analogico, del racconto.
Credidio ha agito su un ampio ventaglio tecnico, sempre introducendo con spirito sperimentale variazioni e nuove combinazioni dei patterns formali. Dico la pittura aniconica sviluppata nel corso della superficie; la filatura grafica di mistiformi andamenti lineari, sinusoidi, ghirigori, textures; la scultura piana, oggettuale, aggregativa, verbo-visiva, più raramente plastica. Quindi, come articolazione e dislocazione anche in iterazione seriale delle opere nello spazio-ambiente, l’installazione fissa, mobile, agibile e la performance eseguita in interazione corpo-opera e nel continuum spazio-temporale della luce virata e della musica.
Sono pratiche diverse, come si vede, risolte con rigorosa unità stilistica. Credidio non ha mancato di esercitarle ognuna nel suo specifico operativo e linguistico, come pittura, grafica e scultura. Ma al contempo e per buona parte del suo lavoro, ha messo in atto una sorta di strategia della contaminazione linguistica, nel senso che per lo più ha giocato le loro specificità, in toto o in parte, contemporaneamente in fase progettuale ed esecutiva delle opere, specie quando concepite come insiemi. L’opera sarà dunque da considerarsi luogo composito non solo “multi-mediale”, nel senso che si usano più media come già per l’omonimo ciclo del quale si è detto, bensì “inter-mediale”, poiché le diverse pratiche convergono e si relazionano concorrendo alla definizione armonica della sua unicità, nella polivalenza dei codici formali che la costituiscono.
I dieci anni fittamente operosi lungo i quali si scalano le opere che al Maca rappresentano il presente secondo periodo di Maria Credidio, li assegnerei nel senso più generale e comprensivo alla continuità “discontinua” nel senso variabile, di quella linea della ricerca moderna che Filiberto Menna diceva “analitica”, piuttosto che a questa o quella tendenza stilistica e operativa corrente su quella direttrice. Ha sperimentato modalità d’uso progettuale, costruttivista, minimalista del linguaggio formale, procedendo a ridurre all’essenza delle figure primarie le componenti morfologiche della partitura: il segno e la cifra grafica, la linea e gli impalcati lineari, il piano e le sue articolazioni e modulazioni spaziali, i volumi che si esplicano, facendo struttura tridimensionale, in chiave architettonica. Insomma, è la metrica fondativa della partitura astratto-concreta.
Credidio la declina azzerando i valori materici, se non nelle abbastanza rare inclusioni oggettuali, e riducendo la cromia per lo più al bianco o a fondi d’altro colore neutro, poiché le tinte intere sono usate per lo più a tutto campo e in chiave segnaletica. Oppure induce un’idea plastica del colore quando i rossi e gli azzurri intensi dei Circles, degli Intrecci e di altri tipi, li realizza variamente sovrapponendo morfemi che la luce portata investe proiettandone le ombre, talché Credidio induce il medesimo effetto sinestetico d’onda sonora già ampiamente utilizzato nei dipinti, specie di rimando simbolico, già rappresentati.
È entrata, insomma, nell’area del freddo, dell’estraniazione emotiva, della forma oggettualizzata, delle strutture astratte fondate sulla geometria piana e solida e governate da una logica ordinatrice di appartenenza concettuale, per cui del relativismo fenomenico, dello statuto fisico dell’opera non si rileverà se non ciò che la luce che la investe, cangiante con l’angolatura di incidenza, rivelerà alla pura percezione appunto fenomenica del riguardante. E bastino gli esempi delle delicate flessioni lineari, globulari, ondulari, in cavo o in rilievo delle superfici determinate dalle belle textures monocrome realizzate sul tema spaziale del cerchio o del quadrato.
Ebbene, non si sbaglia sostenendo che le opere che compongono il secondo periodo di Maria Credidio sono tutte assunzioni dello spazio in strutture e figure geometriche piane e solide, che dislocate nello spazio, singolarmente o ancor meglio in serie e insiemi e aggregati, trovano la propria integrata alterità di luoghi relazionali. Non forme e figure pure dell’assoluto metafisico della geometria, che è misura astratta dell’entità spazio; ma forme e figure edificate della geometria che è misura concreta e simbolo dello spazio dell’uomo. L’uomo per la cui presenza, sovente e in più modi da Maria Credidio dichiarata – tra le altre nella bella installazione Katarsis del 2012 oggi nella collezione del Museo d’Arte Limen – in corpo d’opera, sotto specie di cifra grafica e parola, persino di libro, lo spazio praticabile si fa luogo relazionale con lo spazio altro, infinito ma inconcepibile per il limite della mente umana.
Per questa ragione chiamo illimite l’estensione spaziale nella quale si colloca e con la quale si relaziona lo spazio dell’uomo simboleggiato nelle forme e figure della geometria, e ho voluto intitolare Abitare l’illimite la mostra al Maca, prendendo lo spunto da un’opera di Credidio, Abitare la geometria, e dal titolo di un’opera del 2017, Inversione, oggi nel Museo d’Arte Maon, che suggerivo di chiamare Inversione verso l’illimite, appunto, commentandola nel modo con cui posso concludere questo mio ragionamento.
Dicevo dunque che in Inversione verso l’illimite la tela assolutamente bianca, di esatto taglio e bordatura, è uno spaccato dello spazio astrattamente concepito. I triangoli dalle punte segnaletiche orientate in due direzioni opposte dello spazio gravitazionale, allogate come nicchie sulla e attraverso la tela, sono lo spazio/tempio edificato dall’uomo, e custodiscono come teche la parola, il senso della parola che è luogo della sacralità, della conoscenza e della comunicazione. Riduzione simbolica, dunque, d’uno spazio concreto in quanto ricetto relativistico del limite umano, spazio protettivo che segnala anche il limite delle sue possibilità di espansione. La leggerissima estroflessione della candida tela ai margini dell’asse centrale, rimanda alla soglia appena avvertibile tra il relativismo dello spazio umano concreto e lo spazio astratto in quanto incommensurabile e direi inconcepibile, che chiamiamo infinito. Questo spazio della “tensione verso” l’altrove lo chiamerei appunto l’illimite, perché questo termine contiene e poeticamente trascina l’umano con la sua finitezza, idealmente liberandolo nell’ineffabile estensione del mistero.
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