Recensioni ed Eventi: l’opinionista – Nuove Edizioni Bohémien – Edizione Speciale Marzo 2014
A cura di Nino Leotta
Diversi mesi fa, ho visto, in prima visione, il film di Paolo Sorrentino vincitore dell’oscar come “miglior film straniero”. Come di consueto, io e mia moglie, dopo aver visto il film, ci siamo fermati a fare delle considerazioni. Devo dire che abbiamo stentato a ricostruire una trama. Questo aspetto non deve sembrare strano, anzi, lo abbiamo riscontrato come codificato nella scheda del navigato critico cinematografico Italo Spada che parla di “film ad elenco”, per distinguerlo da un “film a cono”. Il succedersi degli episodi ci è parso un intrecciarsi di sequenze che ti trasportavano in un mondo surreale o talmente reale da inchiodarti o coinvolgerti in un giudizio sconvolgente sui modi di vivere di gente che non da nessun senso alla propria vita, che rifiuta ogni evoluzione di tempi, di modi, di un divenire dell’essere. Ci siamo convinti che non c’era tanto da fermarsi a riflettere ma piuttosto perdersi nello sciogliersi delle immagini lasciandosi trasportare o dondolare o catapultare come su un percorso tortuoso tra le “montagne russe” di una giostra del luna park. Perciò, sempre nella definizione di Italo Spada, “un film per gli occhi”. Le immagini, infatti, sono, spesso, di grande respiro. Limpide, molto curate, ammalianti e accattivanti. E anche la maggior parte delle interpretazioni sono dimostrazioni di alta professionalità. Soprattutto la camaleontica presenza di Toni Servillo che ci riporta ad altre interpretazioni quali “Il divo” dello stesso Sorrentino o “Viva la libertà” di Roberto Andò. Abbiamo, poi, ritenuta un po’ prolissa la sequenza finale che ti trascina o ti abbandona in un percorso da ipnosi.
Ma, proprio in quel succedersi di immagini a cui accennavo, ci è sembrato di cogliere lo sconforto della visione di una Roma che, nel suo fascino immortale e tra le stupende meraviglie di un sito più che incantevole, accoglie larve di esistenze in declino, resti di una decadente vecchiaia che induce a un penoso sconforto. Certamente l’assegnazione del prestigioso oscar ha tenuto in conto l’essenza del cinema che è quella, in ultima analisi, di esprimersi attraverso le immagini. Ma non immagini usuali o da spassionati turisti, ma luoghi, volti, atteggiamenti che rivelano fantastiche realtà che avvolgono drammi umani, vissuti da periferia della vita. Ci sarà stato, nelle intenzioni del regista, anche l’idea di spingere lo spettatore a volgere uno sguardo, distaccandosi dai propri interessi quotidiani, verso quei luoghi che hanno segnato la meraviglia lungo la nostra vita o verso quei momenti storici arricchiti da eventi esaltanti o da stili di vita più confortante. Ma ben lontani da una deludente realtà presente. Perché questa sembra l’idea dominante del film: il dramma di un fallimento del presente. Il declino di una società vuota e insignificante. Senza autentici interessi e senza obiettivi.
Perciò, alla fine, ammaliati o abbindolati dall’insieme, abbiamo dato il nostro titolo al film di Paolo Sorrentino. Non ce ne voglia nessuno, ma l’abbiamo definito: “La grande tristezza”. Aspettiamo di rivederlo per assaporarlo meglio e per provare a confermare il nostro titolo o ridargli ciò che gli spetta per quel che è stato premiato: “La grande bellezza”.
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