LUIGI VANVITELLI, CARLO III DI BORBONE E LA REGGIA DI CASERTA

Critiche d’Arte – Nuove Edizioni Bohémien – Speciale di Dicembre 2013

Con Luigi Vanvitelli l’esercizio del disegno non è un fatto privato dall’artista, ma un bisogno di rappresentazione e perciò legato allo spazio prospettico e atmosferico, soprattutto alla realtà topografica e di “scena”.

A cura di Luigi Tallarico

– PARTE SECONDA –

Il re Carlo III di Borbone è stato un monarca attivo e innovatore, ha saputo destreggiarsi tra un sistema feudale di “vili, corrotti e odiati, temuti” e una finanza taglieggiatrice, tra il proliferare degli avidi beni ecclesiastici e una amministrazione in conflitto con il potere giudiziario; ha infatti riformato il regno e ha messo ordine nell’amministrazione, fino a tentare – senza riuscirvi – di unificare le molte legislazioni che creavano confusione tra diritto e potere, realizzando però nuove strutture e cercando di dominare l’arretratezza e la miseria. Ma la rinnovata importanza del suo ruolo di monarca è da collegare alla vittoria ottenuta nella battaglia di Velletri nell’agosto 1744, in cui aveva clamorosamente battuto l’armata austriaca di Maria Teresa. Era anche un regnante attento alla cultura e alle arti, soprattutto all’arte del murare, per cui meriterà la lode di Pietro Colletta (cfr. “Storia del Reame dii Napoli” 1837, Capolago), che lo definirà “genio del secolo”. “Eppure, non sono mancati coloro che, con la parzialità faziosa che affligge certi storici, hanno giudicato Carlo III poco più di un perdigiorno, maniaco della caccia”, alla cui passione e attivismo sarebbero invece dovute – è stato notato da Franco Silvestri – le opere più importanti realizzate nel regno e, tra queste, anche la Reggia di Caserta”.

Carlo III di Borbone

Carlo III di Borbone

reggia 2

reggia

Tuttavia il “maniaco della caccia” o il “genio del secolo” non trascurerà di circondarsi di pensatori e artisti, da Anton Raphael Mengs a Gaspar van Wittel, padre di Luigi, da Francesco Solimena ad Antonio Genovesi, discepolo del Vico, che verrà insediato nella prima cattedra europea di economia politica, e che, nell’insegnamento userà la lingua italiana, sostituendo quella latina. Volle infatti nominare Giambattista Vico “regio storiografico”, facendo erigere il teatro di S. Carlo, al tempo il più grande e il più splendido d’Europa, nonché il palazzo di Capodimonte, fabbriche di arazzi e di porcellane, soprattutto un grande albergo dei poveri. Attraverso l’esame dei disegni di Luigi Vanvitelli, re Carlo intuì subito la “fecondità del suo talento” (son parole del re) e comprese altresì che il disegno come “idea” progettuale di ordine e simmetria, se si lega ad una esperienza figurativa, come quella del Vanvitelli, non poteva che sfociare in un’esecuzione di ordine classico.

Luigi Vanvitelli

Luigi Vanvitelli

In effetti Luigi Vanvitelli fin da ragazzo aveva esercitato con grande perizia l’arte della grafica come idea progettuale, avendo acquisito la lezione “romana” del padre, Gaspar van Wittel (olandese e naturalizzato a Roma con il cognome italianizzato di Vanvitelli), che lo aveva abituato a ritrarre le vedute naturali e urbane, nonché gli spazi scenografici della città, con una precisione analitica e soprattutto con la stessa unità di visione. Il corpus disegnativo di Luigi Vanvitelli, al pari di quello altrettanto corposo di Juvarra (il messinese che aveva soggiornato a Roma e a Napoli e che diventerà a Torino l’architetto cortigiano di re Vittorio Amedeo II di Savoia), assume una particolare rilevanza in sede storico-artistica in quanto, pur usando il segno con padronanza, e analitica precisione, in effetti identifica, nella scena topografica “esatta”, la portata concettuale della visione “ideata” (cfr. “Filippo Juvarrae l’Architettura europea”, a cura di A. Bonet Correa, Beatrix Blasco Esquivias e Gaetana Cantone, 1998, Napoli).

Vittorio Amedeo II di Savoia

Vittorio Amedeo II di Savoia

A proposito dei termini di “progettualità” e di “autonomia”, è nota l’affermazione del Vasari, che nelle “Vite Scelte” aveva definito il disegno “padre delle tre arti” e perciò legato geneticamente alla pittura, all’architettura e alla scultura, nel senso che il segno grafico – schizzo o creazione – andasse visto come espressione dipendente dalla pittura, in quanto atto preparatorio della “regina” delle arti. Tuttavia, già sul finire del Trecento, Cennino Cennini – nel “Libro dell’Arte” – adombrava la possibilità del riscatto del “disegno di mano”, inteso come supporto servile della pittura, attraverso l’individuazione del “disegno di testa”, sia pure non ancora autonomo rispetto alla pratica di mano. Con la crisi del Rinascimento, impersonata dalla sperimentazione metalinguistica del Manierismo, il disegno acquista, invece, la sua importanza di esercizio intimo, anche come “capriccio”, Ma immanente all’opera, per cui il linguaggio, riflettendo l’esperienza immediata di se stesso, diveniva strumento non più solo di mano, ma di testa, motivo originale e personale, non più naturale  ideale.

Con Luigi Vanvitelli l’esercizio del disegno non è un fatto privato dall’artista, ma un bisogno di rappresentazione e perciò legato allo spazio prospettico e atmosferico, soprattutto alla realtà topografica e di “scena”. Si tratta, in definitiva, di una veduta prospettica, non più ideale ma reale, che coinvolge la luminosità del paesaggio e che si manifesta nella chiarezza e rigorosità del segno, rispettoso dell’unità dei termini di decorazione e di architettura. D’altra parte “nel Settecento – da Juvarra a Piranesi – il rapporto stretto, tra fantasia figurativa spaziale e realtà concreta dell’architettura – ha riferito Marinelli (“L’esercizio del disegno”, Milano 1993) – è una costante sempre presente”.

Juvarra

Juvarra

Del resto il Vanvitelli, che aveva frequentato a Roma e a Napoli il Juvarra, ammirandone le facciate sceniche, realizza nelle vedute lo stesso rapporto che intercorre tra il segno ad inchiostro, rivelatore di ambienti architettonici, e quello acquarellato, che fornisce una destinazione decorativa e visiva alla veduta.