A cura di Biagio Finocchiaro
C’è un quartiere di origine araba nel cuore antico di Palermo il cui nome mi ha
sempre incuriosito. La Kalsa sembra chiamarsi così proprio per alcuni uomini che vi hanno visto per la prima volta la luce. Il nome deriva dall’arabo “Khalisa” e cioè “puro” o “eletto” e gli uomini a cui mi riferisco sono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Palermo non è mai stata una città banale. Lungo le sue vie si respirano i profumi della gioia più spensierata e gli olezzi della morte più cruenta. I suoi colori sono sempre stati chiari e decisi così come i suoi figli più celebri. Tutti “eletti” e tutti “puri” a modo proprio. Tutti abbracciati da un’ironia malinconica, amara e pungente. Tutti figli di una terra bellissima e disgraziata. In un certo senso tutti figli della Kalsa. Ho immaginato spesso Paolo Borsellino assorto ma sorridente, con la sua andatura umile e lenta, il solito baffetto ben curato ed una sigaretta in bocca a pochi passi dalla chiesa di San Francesco e dalla rinomata Antica Focacceria. Ai giornalisti confessò : «Per anni ho pensato quanto fosse impalpabile, in quel quartiere, il confine che ci separava dalla mafia. Come tanti altri ragazzi che abitano alla Kalsa, in vicolo del Pallone, in via Butera, avrei potuto imboccare la strada di contrabbandiere, di uomo d’onore, anziché quella di magistrato». Ho sempre percepito un suo attaccamento viscerale alla sua terra ed all’inconfondibile modus vivendi siciliano. Un legame grazie al quale non solo è riuscito a scardinare il fenomeno mafioso sotto il profilo giudiziario, sociologico, antropologico e persino culturale ma che gli ha permesso anche di trovare la chiave adatta per le coscienze dei siciliani riuscendo a divulgare un messaggio la cui eco resterà forte e nitida ancora per moltissimi decenni. Sicilianità scambiata per “sicilitudine” sciasciana da alcuni mafiosi che , stando a quello che racconta Giovanni Brusca, lo avvicinarono per tastarne la corruttibilità ricevendo una risposta inequivocabile il cui oggetto ben immaginiamo.
Brusca racconta : <<Il dottor Borsellino, dall’aspetto, ci sembrava un siciliano all’antica, Per questo eravamo convinti di trovare ascolto. Uno di quelli che andò a fargli visita era un vecchissimo compagno di scuola che il giudice non vedeva da oltre vent’anni. Fu messo alla porta e il magistrato rese pubblica questa circostanza>>. Un senso di appartenenza ed identità che lo spinse al sacrificio massimo per amore della propria Nazione. Ecco! Mi piace pensare che la missione di Paolo fosse non tanto il servire lo Stato ma la Nazione. Concetto, quest’ultimo, molto più nobile e profondo e quasi certamente concetto a cui egli era più attaccato. Lo dimostra una chiara militanza missina ed una carica di dirigente provinciale del Fronte Universitario d’Azione Nazionale. Una militanza in anni in cui le scelte erano radicali o quasi e c’era poco spazio per il compromesso ideologico. Una militanza coraggiosa visto il clima che si respirava in quel periodo. Una militanza controcorrente e non superficiale. Ne sono chiara dimostrazione il suo intero operato e l’ultima ostinata volontà di continuare a combattere con la certezza di essere spiato ed ostacolato e con la consapevolezza di dover morire per mano di una melmosa “contengenza” tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. Quasi come un Mishima moderno e sicilianissimo, immolatosi per una causa tutt’altro che giuridica ma piuttosto morale e persino spirituale. Una battaglia che come Nelson vinse dopo la morte. Un abbraccio alla morte coraggioso e sempre con il sorriso negli occhi persino nell’ultimo istante, almeno a quanto dichiarò il suo collega Ayala : <<. Paolo Borsellino è lì, per terra. In mezzo ai detriti. L’esplosione gli ha tranciato di netto le braccia e le gambe. Il suo volto è annerito, ma sotto i suoi baffi si riconosce l’accenno di un sorriso, un’espressione che mai nessuno avrebbe immaginato di poter trovare in quel momento sul viso del magistrato». Persino il suo amico Falcone raccontò divertito al giornalista Padovani l’ennesima battuta di Paolo : “ Mi viene a trovare il collega Paolo Borsellino. <<Giovanni devi darmi immediatamente la combinazione della cassaforte del tuo ufficio>> – <<Perché?>> gli rispondo – << Sennò quando ti ammazzano come l’apriamo?>>. Ironia che lo spinse a sopravvivere ai ripetuti attacchi di colleghi e stampa e a paradossali siparietti come il “soggiorno all’Asinara” ed al conto di questa “vacanza” che gli fu recapitato a casa. Ironia amara ironia che lo aiutò nel ruolo di padre e marito e che probabilmente lo accompagnò nelle riflessioni riguardo la trattativa tra Cosa Nostra, parte della magistratura italiana, pezzi poco fedeli delle forze dell’ordine e politica di allora. E’ sorto proprio nel periodo giovanile, nel periodo militante, in quei vicoli della Kalsa, l’interesse verso un mondo mafioso che la generazione di Paolo ha visto con molta curiosità e poco sospetto. Un mondo nascosto ai più ma percepito da tutti i siciliani. Un mondo la cui pericolosità si nota solo nel momento in cui i fucili iniziano a gridare. Un mondo complesso , quello mafioso, che per combattere bisogna conoscere talvolta anche immedesimandosi. Un approccio scientifico, analitico ma anche pratico che pochi riuscirono a compiere con profitto e grazie al quale moltissimi indegnamente oggi costruiscono carriere politiche e giornalistiche. Io spero solo che dall’alto (da più in alto del Castello Utveggio, del Quirinale e di Montecitorio) stia sorridendo guardando l’attuale evolversi della situazione socio-politica italiana. Spero stia sorridendo vedendo come la propria immagine viene sfruttata da una certa antimafia “partitizzata”. Spero stia fumando l’ennesima sigaretta, insieme all’amico Falcone e all’amata moglie Agnese, scuotendo la testa intenerito dall’ignobile situazione in cui versa la Nazione. Spero sorrida continuando a sperare nelle nuove generazioni in cui riponeva tanta fiducia ma spero anche preghi per noi.
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