Critiche d’Arte – Nuove Edizioni Bohémien – Lo Speciale di Dicembre 2013
A cura di Salvatore R. Cavallaro
Sappiamo ormai che trovare una formula originale che sia anche una valida risposta all’arte contemporanea, quando questa diventa un complicato gioco intellettuale per pochi addetti ai lavori, rappresenta oggigiorno una sfida significativa e soprattutto richiede un talento fuori dal comune.
Il rischio che molti artisti corrono è di non risultare abbastanza accessibili al grande pubblico oppure, per evitarlo, di essere troppo convenzionali e quindi poco interessanti. Tramontata l’arte dei secoli scorsi, le grandi avanguardie e le correnti storiche coi loro manifesti programmatici, perfino le ultime ricerche individuali degli anni ‘60 e ‘70, fare arte oggi è riuscire a dare una risposta anche a questioni del genere: parlare ancora all’uomo della strada e allo stesso tempo essere moderni negli scopi e particolarmente audaci nei mezzi.
Un artista che è riuscito a fare sue simili istanze approntando una golosa ricetta che, facendo uso di ingredienti classici e non dimenticando il sapore delle antiche tradizioni, è poi diventata nelle sue mani esperte un’idea nuova e insieme commestibile a tutti, è l’americano Kris Kuksi.
Figlio dell’ambiente rurale tipico del Missouri e cresciuto nel vicino Kansas, Kuksi nasce il 2 marzo 1973 e vive un’infanzia solitaria all’interno di una famiglia poco presente che lo lascia per lunghi periodi a dover fare i conti con l’immobile realtà della campagna circostante e la vasta eco del suo mondo interiore che il silenzio intorno incoraggia e acuisce in maniera quasi ossessiva. L’assenza di televisione o contatti sociali lo spinge così fin da bambino a dare libero sfogo alla sua fervida immaginazione impiegando i soli materiali che ha a disposizione: pezzi di metallo, lego, fili di spago, legno, mattoni o pezzi di astronavi giocattolo con i quali assembla piccoli diorami e i primi paesaggi onirici. Di questo periodo dirà lui stesso “mi sentivo poco stimolato dall’ambiente esterno, non c’erano distrazioni e quindi iniziai a immaginare mondi nella mia testa”.
Nonostante l’esigenza irresistibile di proporsi con soluzioni personali la sua formazione è comunque scrupolosa. Dopo il diploma in Belle Arti all’Università di Fort Hays in Kansas del 1998 e lo studio della pittura italiana grazie ad un seminario tenuto a Firenze presso la Santa Reparata International School of Art nel 2001, vince diversi Master sia in Europa che negli Stati Uniti. Grazie a queste esperienze avrà modo di riflettere sui temi artistici del passato, di filtrarne i contenuti essenziali, di saggiarne le tecniche e di estrapolare in alcuni casi quegli aspetti metafisici che maggiormente lo hanno aiutato a riconoscersi come quell’artista che in molti definiscono “insolito”, fedele al proprio stile personalissimo.
Kris Kuksi, pur essendo un ottimo disegnatore e un pittore raffinato, è celebre soprattutto per le sue composizioni, sculture complesse frutto di una maestria unica e meticolosa. Le opere sono dei diorami intricati e dettagliati composti a partire da materiali misti che vengono lavorati, scolpiti, intagliati, sciolti, saldati o incollati assieme secondo una sorta di flusso ininterrotto della fantasia dell’autore che accumula e aggiunge i particolari più sconcertanti ed enigmatici. La scelta è quella di ricorrere agli stessi prodotti di cui si è sempre servito negli anni, permettendogli quindi di esprimersi con una disinvoltura già testata: componenti meccaniche, scarti di legno o ferro, ingranaggi, pezzi da modellismo, parti di giocattoli, soldatini e oggetti vari sono decontestualizzati e, interagendo reciprocamente, assumono un ruolo estraneo allo scopo per cui erano stati creati.
Il risultato è una sorta di orchestrazione fantasmagorica, la creazione di un vero e proprio mondo in miniatura all’interno del quale lo spettatore si perde come dentro un romanzo fantascientifico o un film visionario.
Ogni minimo elemento evoca un mistero, un oscuro dramma, una grottesca messinscena regolata dall’atmosfera macabra e surreale di un luogo impossibile dove ognuno di noi è invitato a riconoscere l’intimo rapporto che in fondo lo costringe a relazionarsi per vie ignote a quell’universo in scala, ricco di simbolismi e allusioni futuristiche e ancestrali.
Nei suoi lavori i rimandi al barocco e al rococò sono chiari, ma anche il debito nei confronti di Bosch, Bruegel e dei pittori fiamminghi in generale, di Bernini o, tornando ai giorni nostri, dell’artista svizzero Hans Giger è evidente. Un bagaglio culturale fatto su misura che, sapientemente elaborato, si manifesta per archetipi, valori simbolici, corrispondenze di significati occulti ma sempre ansiosi di chiamarci in causa attraverso una forma di comunicazione che nega se stessa quel tanto da essere seducente alla nostra coscienza intanto che il colloquio, quello vero, avviene a livello più profondo.
Riguardo ai contenuti espliciti, da diverse interviste, emerge una dura critica all’uomo di ieri e di oggi. Alle società umane che nel corso dei secoli non hanno saputo imparare dai propri errori e che Kuksi considera oramai vicine al punto di non ritorno e destinate ad un futuro inquietante. I suoi lavori riproducono pertanto la babele organizzata che inquadra le rovine del nostro passato, i frammenti accumulati pezzo dopo pezzo a formare il mosaico dei nostri fallimenti. L’avvertimento diventa quindi didascalico: il pericolo, e dunque la paura, è che l’avvenire sia in realtà la fine di qualunque progetto, di qualsiasi speranza. Prendere consapevolezza di ciò vuol dire aver già fatto il primo passo verso la salvezza, l’ultima chance rimastaci, seppur remota. A tal proposito lui stesso dice: “Siamo condannati se non riusciamo a vedere a quali risultati ci ha portato il continuo avvicendarsi nella storia dell’umanità di ascese improvvise e rovinose cadute. Per noi sarebbe così semplice fare qualcosa, solo che non siamo abbastanza intelligenti da salvare noi stessi”.
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