Memorie – Recensioni ed Eventi – Nuove Edizioni Bohémien – Maggio 2014
A cura di Dario Stazzone
Se non si è mai preparati alla scomparsa dei propri affetti, se la morte è sempre un’inesorabile separazione non è meno doloroso il venir meno di un intellettuale, di un filologo e di un teorico che la lunga frequenza di studio ci ha reso amico. Questo pensavo il 16 marzo quando giungeva la notizia della morte di Cesare Segre. I suoi saggi hanno accompagnato il mio percorso di formazione universitaria e rimangono imprescindibili strumenti per chi si dedichi agli studi letterari.
L’acribia dello studioso affondava le radici in una storia familiare improntata all’eccellenza intellettuale ma segnata dalle traversie imposte dalle leggi raziali: Segre fece da aiutante dello zio Santorre Debenedetti, ottimo filologo sospeso dall’insegnamento in quanto ebreo. La difficile temperie è stata paradossalmente l’occasione che ha dato al giovane una formazione solida quanto precoce: dopo aver dissertato una tesi di laurea con Benvenuto Terracini, ad appena ventisei anni egli occupò la cattedra di filologia romanza presso lo Studio di Trieste. Della sua attività filologica rimane, tra altri lavori esemplari, l’edizione critica dell’Ariosto dov’è evidente l’influsso continiano. L’interesse per la prosa italiana delle origini e per il plurilinguismo dei “macheronici” si concretò poi nel volume Feltrinelli “Lingua, stile e società”: ripensando a questo percorso di studio è facile comprendere perché proprio a Segre sia toccato dare l’imprimatur critico all’opera di uno scrittore come Vincenzo Consolo.
Potrebbe sembrare strano che muovendo dal mondo solo in apparenza compassato della filologia romanza Segre sia diventato in Italia uno dei principali studiosi di semiologia e un esegeta acuto del fenomeno strutturalista: la filologia romanza ha rivelato spesso una straordinaria vivacità teorica, ben dimostrata dal provocatorio discorso del 1967 di Hans Robert Jauss, “Come e perché si studia la storia della letteratura”, atto fondativo dell’Estetica della ricezione e della teoria della letteratura tedesca. Nel 1965, anno in cui Julia Kristeva coniava la fortunatissima nozione di “intertestualità”, Giacomo Debenedetti commissionò a Segre un’inchiesta sullo Strutturalismo francese che conosceva allora il suo momento di massima notorietà e vivacità. L’inchiesta venne pubblicata a corredo del catalogo della casa editrice Il Saggiatore con interventi di Starobinski, Jakobson e Barthes. È da dire che il lavoro segriano seppe cogliere la linfa viva e provocatoria di quella temperie intellettuale, la stessa che, pur ricorrendo agli algoritmi oggi tanto contestati ed a una volontà di normazione generale del funzionamento del testo e della comunicazione letteraria, rinunziava alle sue posizioni più rigide nel momento stesso in cui postulava la costituzione palinsestica dell’opera letteraria, il dialogo intertestuale ed attribuiva centralità alla funzione del lettore in opposizione alla tradizionale egemonia dell’intenzionalità d’autore. Oggi, anche grazie al lavoro di Segre, dell’avventura strutturalista è possibile dare un giudizio complessivo articolato e meditato, tra le luci e le ombre di una temperie che volle essere comunque di destrutturazione dei saperi costituiti.
Si deve poi a Segre un efficace strumento didattico come l’einaudiano “Avviamento all’analisi del testo letterario”, buon prodromo alla narratologia, sempre letto e discusso dagli studenti delle nostre università. Un’indomita curiosità ha portato lo studioso ad eccedere spesso i limiti disciplinari contaminando diversi campi d’interesse. Per dirla con Salvatore Silvano Nigro “Segre non si accontentò mai dei confini ristretti di una ben precisa appartenenza accademica”. Ricordo con che passione si discuteva, al momento della sua pubblicazione nel 2003, de “La pelle di San Bartolomeo”, un saggio dedicato alla linguisticità dell’opera d’arte ed al rapporto tra letteratura ed arti figurative. La ricerca segriana, misurandosi col riflusso della teoria letteraria degli anni più recenti, ha saputo proporre una riflessione icastica con “Notizie dalla crisi” del 1993, ma è emblematico che lo stesso autore abbia nuovamente rinfocolato il dibattito su morte e resurrezione della critica, anzi sulla sua ineluttabile necessità, col “Ritorno alla critica” del 2010, un testo che conteneva anche, a modo di exemplum, splendidi esercizi di lettura su Primo Levi, Gadda, Sereni e Lalla Romano. Nel recente “Tempo di bilanci. La fine del Novecento”, lo studioso si è spinto a riflettere sul tema difficile e controverso del rapporto tra etica e letteratura.
A Segre capitò per altro, com’era capitato a Contini con Montale, di incontrare uno scrittore stimolante come Consolo. Lo studioso trovò nell’opera consoliana, nel suo plurilinguismo e nella sua plurivocità, un campo privilegiato per l’esercizio critico: ne nacquero gli scritti esemplari sulla “struttura a chiocciola” del “Sorriso dell’ignoto marinaio” e sulla trafila intertestuale che da Leopardi a Piccolo giunge alla favola drammatica “Lunaria”. All’indomani della morte di Consolo mi ha commosso leggere l’articolo in memoria vergato dall’oramai anziano e malato filologo. Adesso tocca a noi ricordare Segre e il modo migliore di farlo è tornare ai suoi testi, finalmente raccolti in un Meridiano che lo stesso studioso ha curato concependolo come “una specie di autobiografia” e dunque come un prezioso testamento spirituale.
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