Recensioni ed Eventi/Libri
A cura di Maria Cristina Torrisi
Leggendo l’ultimo lavoro dello scrittore Salvo Cavallaro “Era Destino”, stupisce la capacità nel riuscire a creare solidi fili conduttori con le sue precedenti pubblicazioni. Tematiche differenti ma sostenute da una identità che sopravvive ai cambiamenti, offrendo un pensiero filosofico che, pur evolvendo e maturando nelle vicende narrate, garantisce inequivocabilmente “lo stile” dell’autore.
Salvo Cavallaro, nel mestiere di prosatore, è fedele. Non si smentisce mai; anzi convalida, riconferma, si rende scrittore riconoscibile così come lo è il padre del commissario Montalbano, Andrea Camilleri.
La sua è una impronta decisa che punta sull’”identificazione” e sull’”individuazione”, ossia sul bisogno di trasferire parte della propria identità in un personaggio e di poterlo collocare in un contesto di appartenenza.
Non a caso, “le figure principi” che popolano i racconti rappresentano “un altro se stesso”, attorniato appunto da qualche personaggio realmente esistente.
Non sono semplici storie, ma vicende che nascono dagli aneddoti della vita; che raccontano, con levità, una realtà sofferta, ingiusta, senza slanci e mitemente accettata da chi la subisce con la consapevolezza del potere che la sorte ha nell’assoggettare l’uomo. Ci si riconosce dunque vittime del destino. Il destino di chi?
Di un giovane avvocato che si ripromette di cambiare vita, che spera di poter tornare indietro per fare altre scelte ma che si ritrova ad essere coinvolto dal lavoro. Di un ispettore di polizia che non è “cosciente” ma la cui esistenza appartiene già al decorso di eventi trascorsi, che tornano a fare i conti senza alcuna pietà e solo per il sarcasmo di questo destino che, come un Baccus, ride e si diverte.
E allora ecco che tornano ed emergono i quesiti dello scrittore che, se un tempo si era posto l’interrogativo: “Ma di cosa stiamo ancora parlando?”, oggi è lì che “trema” dinnanzi all’implacabile destino, chiedendosi: “Dunque dove eravamo rimasti?”.
Mi chiedo se, attraverso le pagine dei suoi libri, il Cavallaro non provi a denunciare, a ribellarsi dinnanzi ad un sistema che va oltre le regole umane e che, piuttosto, riguardi il Cosmo. Eppure, con il suo humour inglese (era una giornata qualunque del mese di ottobre) non pone l’affezionato lettore dinnanzi ad un bivio. Forse non vi è soluzione alcuna perché a decidere è chiamato in causa sempre e solo il fato?
In questo “universo di consapevolezza”, in cui lo scrittore pone l’attenzione su “ciò che affligge l’uomo”, egli decide di vestire i panni (i suoi panni) di avvocato prima e di ispettore poi. Ma da lettrice mi chiedo: chissà se per il primo personaggio lo fa in maniera conscia, mentre per il secondo inconsciamente? Poiché lui potrebbe divenire un giustiziare, chiamato “inconsapevolmente” ad uccidere il destino, artefice dell’odio, della disarmonia, dei compromessi, delle atroci verità.
Nel libro, suddiviso in due parti, due personaggi distanti sono in realtà molto simili poiché rivestono la figura di “antieroi”, soggiogati dalla forza brutale ed ingiusta dell’inclemente sorte. E se invece volessimo giustificare l’andamento delle cose? La risposta è sempre questa: “Era Destino”. Come se l’impotenza umana dovrà per sempre soccombere.
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