RECENSIONI
A cura di Germana Ferlito
“Ogni cosa appassisce/io mi scopro a frugare/in vetrine di morte/quando il sabato sera/la tenerezza rimane senza compagnia”.
È il 1970 quando Léo Ferré incide “Avec le Temp” che giungerà in Italia 2 anni dopo con Gino Paoli.
Leggendo “Ada e Incubus” l’accostamento è stato immediato: l’amore tradito, l’abbandono, la separazione, la tenerezza interrotta, gli “anni perduti”.
Inoltre la narrazione è accompagnata, in diverse scene, da un citato sottofondo musicale, ad esempio: “La lugubre gondola” di Liszt, i valzer di Strauss e la “Danse macabre” di Saint Saens in cui si raggiunge l’acme del romanzo stesso, in una scena particolarmente suggestiva.
Ada in abito da sposa, in una danza macabra, è succube di un rito privato dalla sacralità: la fede che si è investita nel Sì sull’altare adornato da bianchi gigli, adesso appassiti, e la luce della promessa infranta – “Finché morte non vi separi” – diviene oscurità abissale che trascina e trattiene.
Chi è Incubus: è il volto del nostro dolore che, come un vampiro, risucchia la nostra energia.
I giorni dell’abbandono, sono giorni di smarrimento, si subisce il crollo di ogni certezza – “L’altro a cui tu credevi/anche a un colpo di tosse” (cit. Avec le temp) – l’irreale prende piede, i confini si fanno labili, si giace in una dimensione sospesa, di alienazione. Ada cede a Morfeo.
Il sogno è linguaggio dell’inconscio, che necessita di stabilire un equilibrio tra l’immagine (ormai crollata) frutto dell’idealizzazione e l’immagine rivelata dell’altro: lo sconosciuto.
Immagine a cui il nostro “IO” deve dare coerenza, deve ricomporre, al fine di accettarla e liberarla dal rancore, dall’odio, per trovare pace.
Più volte viene richiamato il ritorno al grembo materno, unico vero luogo sicuro, impresso in noi stessi pur non avendone memoria e di cui avremo sempre nostalgia.
Viviamo la vita alla ricerca di quel calore, alla ricerca di protezione, quel ritorno e bisogno di fondere noi stessi con l’altro, il contatto viscerale che si fa fortezza e forza. Il ciclo naturale (nel parto) ci impone la separazione, al fine di realizzare un io autonomo: l’individuo. La nascita dell’ “IO” avviene di conseguenza a questo distacco. Aprire gli occhi sul mondo, come fosse la prima volta, e scoprire che ESISTERE (dal latino “ex”=fuori; “sistere”=stare, porsi) significa uscire fuori: fuori dalla certezza, esuli da luogo sicuro.
Ada si smarrisce nei meandri di un tetro incubo, sprofonda in un abisso che la trascina con sé: Non c’è nascita senza dolore. Dobbiamo partorire nuovamente noi stessi, e non v’é venuta al mondo senza pianto, nel vagito è il primo respiro e la vita si innesca.
Noi siamo già prima di esistere (il DNA, identità irripetibile di ogni creatura, si realizza in stato embrionale), ma nel luogo della separazione realizziamo la nostra identità.
Maria Cristina Torrisi, giornalista e scrittrice prolifica, in questa sua opera “partorisce” se stessa, attraversando le fasi necessarie per la rinascita.
Ripercorre il percorso tortuoso per ritrovare se stessa a seguito dell’abbandono.
La separazione dall’altro è molto spesso simile all’elaborazione di un lutto.
È un testo profondamente intimo e frutto di un coraggio inaudito (per mettere a nudo se stessi senza remore), ma necessario.
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