A cura di Maria Pia Fontana
L’approfondimento storico ci svela che la pratica del pellegrinaggio è antichissima, tanto che nelle grotte di Lascaux e di Rouffignac, nella Francia centro meridionale, esistono raffigurazioni di marce rituali di adolescenti risalenti a ventimila anni fa che, presumibilmente, servivano come riti iniziatori.
L’occasione di questa riflessione scaturisce da un invito a partecipare alla proiezione del documentario “La retta via” (2009) di Roberta Cortella e Marco Leopardi che il Gruppo fotografico e video “Waiting for Salgado”, rappresentato dal dott. Orazio Aloi, in collaborazione con l’Area Marina Protetta “Isole dei Ciclopi”, ha avuto il merito di organizzare presso la sede dell’AMP di Acitrezza (Acicastello – Catania). Attraverso l’efficace racconto filmico, presentato in diretta dallo stesso Marco Leopardi, conosco quindi la storia di Jonathan e Ruben, due adolescenti belgi detenuti per gravi reati, che un’ONG (Oikoten) ha ammesso ad un insolito programma di riabilitazione: camminare per 2500 km per raggiungere Santiago de Compostela, accompagnati da un supporter adulto, il quale non si qualifica come educatore e neppure come psicologo e ha come unico compito quello di “farli camminare”.
Entrambi i ragazzi vivono situazioni familiari difficili. Jonathan, originario del Cile, è detenuto per rapina e spaccio, ha subito la perdita violenta del padre ed accetta la sfida rappresentata dal progetto riabilitativo perché crede in Dio e sente un forte legame affettivo con la madre, che, pur essendo detenuta come lui, lo spinge a trovare la sua personale “retta via”. Ruben, invece, che sconta una condanna per rapina, non è credente e trova la sua spinta motivazionale nella volontà di riconquistare la fiducia della sua ragazza, che ha messo al mondo suo figlio quando lui era già in carcere, e desidera dimostrarle che non è un “buono a nulla” ma è capace di portare a termine qualcosa. Se entrambi i ragazzi raggiungeranno la meta, superando le fatiche fisiche e morali del “pellegrinaggio”, che richiederà circa quattro mesi di cammino, la loro pena sarà estinta ed otterranno la libertà. Ma al di là di questo scopo strumentale, meta ideale del viaggio non è convertirsi alla fede, ma “scoprire se stessi”. Le regole sono essenziali: si cammina rigorosamente a piedi, si rispetta la legge, non si usano cellulari e non si assume droga.
Grazie alla documentazione filmica del loro cammino, attraverso una natura avvolta nella grigia nebbia invernale o riscaldata dai tiepidi raggi del sole primaverile, seguiamo così la singolare peregrinazione di questi due ragazzi e del loro accompagnatore, immaginando la pesantezza dei loro enormi zaini, la contrazione dei muscoli delle gambe, i disagi per le necessità quotidiane (visto che si mangia e si dorme all’aperto), gli inevitabili momenti di scoramento e le domande che si agitano dentro di loro.
L’approfondimento storico ci svela che la pratica del pellegrinaggio è antichissima, tanto che nelle grotte di Lascaux e di Rouffignac, nella Francia centro meridionale, esistono raffigurazioni di marce rituali di adolescenti risalenti a ventimila anni fa che, presumibilmente, servivano come riti iniziatori[1]. Luoghi o mete sacre, spesso associate a una specifica simbologia (ad es. il monte, come sede di incontro tra cielo e terra) sono previsti in tutti i culti e il loro raggiungimento ha assunto significati e scopi diversi a seconda del tempo o delle varie confessioni (ad es. funzione penitenziale, purificatrice, taumaturgica, di richiesta di speciali grazie e favori, ecc.). Tuttavia, il pellegrinaggio giudiziario o coatto, come espediente per espiare delle condanne per reati gravi, storicamente nasce nelle Fiandre in Belgio nel 1300, in parallelo al progressivo affermarsi della società mercantile e della crisi dei valori del cristianesimo tradizionale[2]. Meta di arrivo non era solo Santiago de Compostela, ma anche S.Nicola di Bari o Sant’Andrea in Scozia. Questa pratica, che disancorava il pellegrinaggio dalla scelta intima e spirituale del fedele e ne faceva una pena imposta dalle magistrature cittadine, si diffuse perché da un lato garantiva per lunghi periodi l’allontanamento di soggetti scomodi ed indesiderabili dalla comunità, rappresentando una sorta di esilio forzato, dall’altro perché contemplava la convertibilità della condanna in un’ammenda pecuniaria di diversa entità a seconda della lunghezza e della difficoltà del viaggio. Tale opzione consentiva a sua volta una ricomposizione pacifica del conflitto generato dal reato. Infatti, una parte dell’ammenda (paix à partie) serviva a risarcire la parte lesa, mentre un’altra (paix au seigneur) era invece destinata a garantire la pace pubblica e a pagare il debito nei confronti della società[3]. Il pellegrinaggio coatto quindi riuscì a soddisfare molteplici scopi, conservando dell’originario valore religioso solo qualche adempimento formale (la meta del santuario, la visita allo stesso, la sosta per la preghiera), mentre le esigenze di espiazione venivano soddisfatte attraverso le durezze del viaggio.
Dal 1982 in Belgio questa pratica ha cominciato ad essere riproposta ai ragazzi autori di reato. Quelli che partecipano al programma sono in media 16 all’anno, dopo una selezione che considera soprattutto la loro spinta motivazionale, con una percentuale di successo pari a circa il 50%. Ciò che rileva di queste iniziative è il recupero dell’originario valore formativo dell’esperienza. Infatti, la stessa radice etimologica di pellegrinaggio, da peragrare, non sta a significare solo il viaggiare, ma anche “il ricercare”, “l’investigare”, distinguendosi in ciò dal vagabondare, che una certa tradizione cristiana risalente a S. Agostino condannava perché il girovagare senza meta si collegava all’idea dell’inerzia mentale e della dissipazione[4].
Marco Leopardi, co-regista della “Retta via”, evidenzia come sia stata molto complessa la realizzazione del documentario anche per la difficoltà di estrapolare dei dialoghi tra i ragazzi, considerato che il vero protagonista del cammino è stato il loro dialogo interiore e il percorso è stato avvolto da un’apparente silenzio che in realtà rifletteva un rumore nascosto, intimo. Non a caso uno degli adolescenti dirà “questo cammino mi ha insegnato a pensare”. Utile espediente per riportare in parola i loro pensieri è stata, quindi, la scelta dei registi di consegnare ai giovani una telecamera personale che ha raccolto in modo informale preziosi stralci della loro narrazione biografica e del processo di rielaborazione esperienziale.
Oltre alla spinta motivazionale iniziale, la buona riuscita di queste iniziative sembra poggiare essenzialmente su due variabili: le qualità relazionali dell’accompagnatore e la lunga durata del percorso, in quanto tragitti brevi ed estremamente semplici non consentono questo lavoro di scavo interiore. Come è facile intuire, i vantaggi educativi di questa esperienza, sotto un profilo strettamente “laico”, sono molteplici: superamento dei propri limiti personali, rafforzamento della forza d’animo e perseveranza nel raggiungere una meta, sviluppo dello spirito di sacrificio e di adattamento, autodisciplina, rinuncia del superfluo, incremento della capacità di arrangiarsi, di collaborare in vista di un fine comune e di condividere le poche risorse a diposizione, contatto con la natura, potenziamento della fiducia in sé stessi e dell’autostima come anche della capacità di affidarsi ad un altro, scambio di esperienze ed incontro con la diversità.
E in un momento storico segnato dalla velocità e dalla superficialità, in cui la conoscenza del mondo e delle relazioni umane è sempre più filtrata, mediata dalle tecnologie, forse il cammino di Santiago ha ancora qualcosa da insegnare, senza ovviamente attribuirgli effetti magicamente taumaturgici o risolutivi rispetto alle problematiche personali o esistenziali dei ragazzi (come di qualsiasi altra persona). Santiago infatti è meta del cammino, ma anche tappa intermedia di una peregrinazione che nei fatti dura tutta la vita e che ogni uomo si trova a compiere non solo per spostare in avanti le sue conquiste personali, ma anche per mantenere e per tesaurizzare quelle già ottenute. C’è da chiedersi se mai esperienze del genere possano essere importate anche in Italia. Se, infatti, non è fattibile che esse abbiano una valenza alternativa alla condanna, senza realizzare alcuna forzatura giuridica si potrebbero utilmente collocare all’interno di programmi educativi come la messa alla prova (ex. art. 28 DPR 448/88). Tale istituto, che sospende il procedimento penale in corso nell’attesa di approfondire la personalità del giovane attraverso un fare concreto, include infatti istanze riparative nei confronti della società così come esperienze formative ed educative forti. E tra quelle offerte dal viaggio per Santiago va valorizzata anche la bellezza dell’incontro con altri pellegrini, spesso stranieri, in un clima di assoluta parità ed autenticità umana, dove nessuno giudica le ragioni profonde che inducono l’altro a mettersi in cammino. Perché quando si muovono i piedi su uno stesso sentiero, piuttosto che mettere in azione ruoli o convenzioni sociali, siamo tutti più uguali.
[1]Bertinetti Aldo, “Il pellegrinaggio, fenomeno umano universale, nella sua dimensione storico-sociologica e ed autenticamente religiosa” in http://www.odpt.it/bertinetti.htm
[2] Benedetto Vetere, prefazione a Pellegrinaggi Giudiziari, di Lorenza Vantaggiato, ed. Compostellane, 2010
[3] Vantaggiato Lorenza, Pellegrinaggi giudiziari, ed. Compostellane, 2010
[4] Benedetto Vetere, op. cit.
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