“Curiosità e un pizzico di adrenalina ci accompagnano tra le pagine della fatica letteraria del Russo”
Acireale, metà Ottocento. La Città si tinge di giallo. E’ quanto raccontato da Rosario Russo, che, nella sua prima fatica letteraria, ci fa dono di un romanzo di genere storico dalla veste thriller. La narrazione avviene attraverso una prosa originale che suddivide il componimento letterario in due parti: nella prima, i personaggi che popolano le scene si catapultano incontrastati e, come in un’opera teatrale pirandelliana, solcano il palco con un’ imposizione tale da divenire in primis “forza narrante”: sono essi stessi a tessere la trama, gli autori “ensemble” che scrivono nero su bianco la vicenda ideata dal Russo. Nella seconda, invece, come se l’autore volesse riscattarsi del suo mutismo, ecco che svela se stesso dandosi voce e animo: comincia, infatti, a novellare con il tocco del classico, affidando i suoi pensieri alla penna verghiana.
Come ne “I Vicerè” di Federico De Roberto, in cui alla morte di Teresa Uzeda si dà il via ad una serie di accadimenti, tra verità certe ed altarini da svelare, così avviene per il romanzo del Russo, nel quale, alla morte di Lionardo Mancini, barone di Santa Caterina, si dipana una vicenda che narra di odio e di vendetta, di misteri, di intrecci amorosi, d’ intrighi, d’ ipocrisia degli alti ceti e di propagazione di storiche memorie.
In una prosa sobria ma originale, perché arricchita del linguaggio dialettale, si rivela ottima la descrizione dei contesti animati dai personaggi così come il dialogo ed il modus vivendi del popolo. L’autore, infatti, riesce a calarsi interamente nella realtà cittadina del tempo ed a trasmettere al lettore la capacità visiva di ciò che narra. Già dalle prime pagine del suo romanzo, il Russo consegna degli indizi, sparpaglia utili input per costruire il mosaico. Non lascia niente al caso, tutto è scrupolosamente studiato per fornire gli elementi che costruiranno la trama. I personaggi della narrazione non sono astratti ma ben definiti: godono infatti di una loro personalità, hanno carattere e lo dimostrano assecondando fedelmente il racconto dell’autore che sa delineare i contorni di ogni indole. Una frase che ben si confà per meglio descriverli è la seguente: “nulla è come appare e ciò che appare non è”. Ciò per definire il doppio ruolo da essi rivestito: le vittime diventano carnefici ed i carnefici si tramutano in vittime, in un sottile gioco delle parti. E’ un’altalena che coinvolge e che accomuna attraverso quelle medesime colpe che da padre si tramandano in figlio.
La cornice storica espone lo spaccato di un’epoca delicata, ben ritratta dall’autore, il quale è riuscito a trascinare il lettore nel contesto storico e misterioso della vicenda. Curiosità e un pizzico di adrenalina ci accompagnano tra le pagine della fatica letteraria del Russo, permeata inoltre di puri e nobili sentimenti come quello dell’amicizia che lega Nardo e Federico.
Tra flashback di umane vicende ed esposizione di quel vero appartenente alla storia, nel romanzo appare chiaro come lo scrittore desideri anche perpetuare i costumi della propria terra. E riesce, senza alcun dubbio, nel suo intento, attraverso esperienze personali che lo portano a stare in mezzo alla gente, attento osservatore che ne carpisce il linguaggio e le abitudini. L’autore si presenta essere troppo meticoloso per affidare solo allo studio le proprie concretezze. Appare un uomo vissuto tra la gente, anche in mezzo ai vicoli, per riportare fedelmente la propria diretta esperienza con “culture differenti”.
Molto bella e di grande coinvolgimento emotivo è la descrizione del Santo compatrono:
“…Dalla strada Biviere arrivò in piazza, posizionandosi giusto sotto il palazzo, la vara argentea di San Sebastiano, il quale guardava tutti dall’ alto così fieramente che manco pareva accorgersene di tutti quei dardi conficcati nel suo corpo, bello com’ era con quei riccioli d’oro e con quegli angioletti vicino che lo consacravano martire di Dio. Tutto attorno una marea di divoti: uomini e donne, vecchi e bambini, stanchi della lunga processione ma felici di poter stare vicino al loro protettore, con quei fazzoletti annodati sul capo e i piedi scalzi in segno di voto…”
Emerge, dunque, la descrizione dettagliata di certi contesti che permette di calarsi pienamente in un’atmosfera d’altri tempi grazie ad uno stile “conservatore” che crede al rispetto delle tramandazioni come dono e privilegio per le generazioni future.
Non ultimo, un elogio particolare va alla descrizione della “riviera dei limoni” (cap.1), splendida cornice per stimolare il lettore ad intraprendere un avvincente viaggio…
“Albeggiava sulla riviera dei limoni. Il mare pareva una tavola blu, tanto era calmo; a muntagna si era svegliata fumando e magari di sera si sarebbe potuto scorgere qualche rivolo rosso sangue in lontananza. Un esercito di muli e di carretti saliva dalle marine, lo stesso dicasi per la strada del bosco, mentre le vie e i vaneddi della città erano calpestate da un brulichio sconnesso di cristiani…”
Maria Cristina Torrisi
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