Arte – Nuove Edizioni Bohémien – Gennaio 2014
A cura di Dario Stazzone
Così, nelle sue Vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani, Giorgio Vasari parlava di Michelangelo Buonarroti: <<il benignissimo Rettor del Cielo volse clemente gli occhi a la terra e, veduta la vana infinità di tante fatiche, gli ardentissimi sudi senza alcun frutto e la opinione prosuntuosa degli uomini, assai più lontana da ‘l vero che le tenebre dalla luce, per cavarci di tanti errori si dispose mandare in terra uno sirito, che universalmente in ciascheduna arte et in ogni professione fusse abile, operando per sé solo a mostrare che cosa siano le difficoltà nella scienza delle linee, nella pittura, nel giudizio della scultura e nella invenzione della veramente garbata architettura. E volse oltra ciò accompagnarlo de la vera filosofia morale, con l’ornamento della dolce poesia…>>. Spirito veramente universale fu il Bonarroti, ad un tempo vertice del processo mimetico rinascimentale e sua destrutturazione, anticipatore del barocco nella commistione delle arti, nella “furia della figura”, persino nello schema prospettico del Campidoglio di cui si ricorderà Bernini nel colonnato di San Pietro. E nell’incompiuto dei suoi “Prigioni”, nel tormento della Pietà Rondanini, che Giovanni Papini chiamava <<la più disperatamente sublime>> delle sue opere, assoluto precorrimento dell’avanguardia.
…Raramente si guarda al Michelangelo poeta, capace di confrontarsi, come ricorda Vasari, anche con la <<dolce poesia>>…
Solitamente si pensa, a ben ragione, al genio di Michelangelo in scultura, con in mente il David, il Bacco del Bargello o il poderoso Mosè, che ispirò ex post anche le pagine di Sigmud Freud, si pensa al pittore titanico della Sistina, oppure all’architetto della Biblioteca Laurenziana, ala cupola di San Pietro ed al Campidoglio, dove l’aretino ridisegnò letteralmente l’antica arx gentium. Raramente si guarda al Michelangelo poeta, capace di confrontarsi, come ricorda Vasari, anche con la <<dolce poesia>>, realizzando con forza prorompente uno dei più originali canzonieri del XVI secolo italiano.
Oggi le Rime di Michelangelo tornano nella collana “i grandi libri” Garzanti, per le cure di Stella Fanelli e la prefazione di Cristina Montagnani: un’edizione accurata nell’apparato di note, nei rinvii al “far comune” dell’ambiente mediceo fiorentino, che però si appoggia ancora sulla lectio semidiplomatica fissata nel 1960 da Enzo Noè Girardi, senza rendere puntuale menzione degli ammordenamenti grafici apportati al canzoniere. Ciò che ripropone la questione di una (assai difficile) edizione critica delle rime michelangiolesche conservate nel codice Vaticano Latino 3211 e nel XIV dell’Archivio Bonarroti. E’ in particolare il codice di Casa Bonarroti che ci restituisce disegni e caricature in chiaro nesso semantico con la parola poetica, una commistione dei codici che parla dell’ansia espressiva di Michelangelo e che sarebbe stato bello veder finalmente riprodotti; nello stesso codice, poi, quasi a segnare il duro adattamento agli statuti metrici, l’autore evidenzia, con maggiore enfasi della maiuscola, l’incipit di ogni strofa, ciò che è particolarmente evidente per i dittici di quartine e terzine di cui constano i sonetti: nella presente edizione, trascurando del tutto la forza dei significati grafici – di cui una filologia aggiornata dovrebbe tener conto – si annulla la volontà d’autore arrivando persino a cancellare la presenza degli spazi interstrofici.
Nonostante questi limiti si potranno finalmente rileggere, con agio, i madrigali, i sonetti e gli epigrammi dedicati a Vittoria Colonna, all’amato Tommaso de’ Cavalieri, alla <<dama bella e crudele>>, con la sequenza, densa di arguto concettimo, degli epitaffi per Cecchino Bracci.A connotare le liriche del Bonarroti, pur ispirate da temi e statuti petrarcheschi, è una dirimente forza lessicale dantesca, è certo “plurilinguismo”, per citare Gianfranco Conti, che non rinunzia allo spurio, al corporale, persino allo scatologico; ed è un dinamismo sintattico fatto di continua torsione ed improvvisa distensione che facilemente si potrebbe rapportare alle “forme serpentinate” della sua scultura e pittura. Insomma, in queste rime “petrose”, è quanto di più eccentrico rispetto al petrarchismo conservatore di Pietro Bembo, ma anche rispetto al più ortodosso petrarchismo di Vittoria Colonna, che pure dedicò a Michelangelo un’offerta di 103 sonetti. Nel frequente ritorno al vernacolo della nativa campagna toscana, peraltro, si potrebbe scorgere più di una tangenza con le liriche del Magnifico e di Agnolo Poliziano.
Il canzoniere michelangiolesco è percorso costantemente anche da un umorismo burlesco che si fa icastico quand’egli ricorda il pontefice Giulio II e la corruzione della chiesa romana; umorismo che progressivamente, negli ultimi anni di vita, sembra chiudersi nel veleno di un sorriso macabro, a testimoniarci, nonostante l’indiscussa affermazione artistica, il paradosso irriducibile della condizione umana, della sua fralità: <<Molti anni fassi qual felice in una / brevissima ora si lamenta e dole; / o per famosa o per antica prole/ altri s’inlustra, e ‘n un momento imbruna>>. Celebre è il sonetto dove, ironicamente, il fiorentino si raffigura dolente nell’impresa titanica della Sistina: <<I’ ho già fatto un gozzo in questo stento / come fa l’acqua a’ gatti in Lombardia, / o ver d’altro paese che si sia, / c’a forza ‘l ventre apicca sotto ‘l mento…>>. L’arte della scultura, investita dalle suggestioni neoplatoniche della Firenze medicea (sostanziate certo dalla lettura di Marsilio Ficino , ma non prive di punte eterodosse), rifulge in un altro, celebre sonetto: <<Non ha l’ottimo artista alcun concetto / c’un marmo solo in sé non circoscriva / col suo soperchio, e solo a quello arriva / la man che ubbidisce all’intelletto>>.
Dentro il libello michelangiolesco, pubblicato solo post mortem, è anche un articolato canto d’amore, dai madrigali che esaltano la philia intellettuale con Vittoria Colonna, alla passione per Tommaso de’ Cavalieri, cui l’aretino regalò anche i disegni della Caduta di Fetonte, di Ganimede, il cosiddetto Bel dormiente e le due versioni, iconograficamente innovative, della Morte di Cleopatra; nei sonetti per il Cavalieri gli statuti petrarchesci sono piegati a nuove e sorprendenti partiture: <<Se ‘l fuoco fusse alla bellezza equale / degli occhi vostri, che da que’ si parte, / non avrie ‘l mondo sì gelata parte / che non ardessi com’acceso strale>>, mentre la sofferente passione dell’anziano artista non rinunzia, talvolta, all’arguzia ironica: <<Chi di notte cavalca, el dì conviene / c’alcuna volta si riposi e dorma: / così sper’ io che dopo tante pene / ristori ‘l mie signor mie vita e forma>>.
Le Rime del Bonarroti, dunque, come testimonianza autobiografica in versi, ma anche come complesso coacervo tematico che s’interfaccia col neoplatonismo dell’autore e con la sua esperienza di scultore, che parla dell’adesione alla causa repubblicana riproponendo il motivo dell’indignatio civile (di lunga fortuna nella lirica italiana, dall’archetipo dantesco e petrarchesco a Leopardi, sino alle infinite partiture novecentesche), che si fa tormentato canto d’amore e, persino, anelito ad un deus absconditus, sentito spesso come troppo distante.
La forza inedita del Michelangelo versificatore torna, e non casualmente, alla modernità letteraria: se ne ricorderà Foscolo, nel suo sonetto Alla notte. L’aretino aveva, infatti, composto una corona di sonetti dedicati allo stesso tema, ed in un epigramma aveva fatto parlare, novello Pigmalione, la sua statua della Notte presso la Sacrestia Nuova di San Lorenzo in Firenze: <<Caro m’è il sonno e più l’esser di sasso / mentre che ‘l danno e la vergogna dura; / non veder, non sentir m’è gran ventura; / però non mi destar, deh, parla basso>>. E’ questo il Bonarroti su cui rifletteva acutamente Mario Praz : <<Con Michelangelo il Rinascimento, e un mondo di esaltati titani vacillava sull’orlo della stanchezza, e la voluttà di Leda si mutava nel languore tenebroso della Notte>>. Una straordinaria intuizione dell’anglista, che sa parlare del tratto uranico e melanconico della lirica michelagnolesca. Il D’Annunzio di Alcyone ricorda a sua volta il grande artista nell’Alpe sublime, in virtù del concetto della forma latente nel blocco marmoreo e della “poetica del non finito”: <<Candore dei marmi lontani / statua non nata, / la più bella!>>. La vena neobarocca di Ungaretti nel Sentimento del tempo riflette spesso l’industrioso concettismo dell’aretino, ma forse più sorprendente è il montale del saggio su Michelangelo poeta, del 1975, ad ammettere affinità col grande artista, ascrivendo le rime per la <<dama bella e crudele>>, per Vittoria Colonna e per Tommaso de’ Cavalieri allo statuo provenzale dell’amor de lonh, e facendone sinopia ai suoi versi per Clizia.
Si torni, dunque, nell’odierna riproposizione, al fiorentino <<spirito bizzarro>>, anche per rileggere i percorsi carsici della successiva produzione letteraria italiana. Si torni al Michelangelo poeta: poderoso contrappunto alla stilizzazione letteraria della Rinascenza, e, non differentemente da Gòngora e Donne, petrarchista anomalo.
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