MEMORIE DI UN PERSONAGGIO/ARTE
A cura di Antonino Leotta
Sabato 7 gennaio 1984 c’era in programma al Teatro Stabile di Catania la commedia “Pensaci Giacomino” di Luigi Pirandello. Dopo tanti anni di abbonamento avevamo raggiunto -con mia moglie- l’assegnazione del posto in terza fila, nella serata del primo sabato di ogni recita in cartellone. Prima dello spettacolo un membro del Consiglio di Amministrazione si presentò sulla ribalta e accennò all’omicidio di Giuseppe Fava che era avvenuto, a pochi metri dal Teatro, due sere prima. Il giornalista, drammaturgo e scrittore si stava recando ad assistere alla recita della nipotina nella commedia “Pensaci Giacomino” di Luigi Pirandello. Il presentatore concluse l’intervento ricordando lo stile del mondo teatrale: “lo spettacolo deve continuare“.
Il cartellone di quella stagione 1983-84 aveva preso inizio il 9 novembre ‘83 proprio con la messa in scena del dramma “Ultima Violenza” dove Giuseppe Fava aveva fatto scorrere una sequenza di personaggi del nostro territorio, intoccabili ma compromessi, come “i cavalieri del lavoro”, politici, amministratori, loschi individui manipolatori degli appalti pubblici e ingordi avvoltoi.
Sette giorni prima della morte era stato intervistato da Enzo Biagi che curava la rubrica Film-story su Retequattro e aveva dichiarato: “…Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia”.
E, puntualizzando la differenza tra i veri mafiosi e i “scassapagghiara” delinquenti da tre soldi, aveva aggiunto: “I mafiosi veri stanno in ben altri luoghi, in ben altre assemblee; i mafiosi stanno in Parlamento, a volte sono ministri, a volte sono banchieri, sono quelli ai vertici della Nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di fondo… Insomma, non si può definire mafioso il piccolo delinquente che ti impone la piccola taglia sulla tua piccola attività: questa è roba da piccola criminalità che ormai abita in tutte le città italiane ed europee. Il problema della mafia è molto più tragico ed importante, è un problema di vertice nella gestione della Nazione che rischia di portare alla rovina e al decadimento culturale l’Italia”.
L’obiettivo dell’impegno quotidiano di Giuseppe Fava era proprio quello di smascherare gli artefici della prepotenza e dell’arroganza che condizionavano la vita sociale, politica, economica, culturale della nostra isola. La sua vasta attività nel campo giornalistico lo portò a stabilirsi a Roma e collaborare con la RAI, il “Corriere della sera” e “La Stampa” mentre le sue opere teatrali venivano rappresentate in vari teatri. Nel gennaio 1983 tornò a Catania e fondò “I siciliani”. Quel giornale divenne una forte accusa che scosse il quadro del potere dominante in Sicilia. Qualcuno decretò che doveva scomparire dalla pubblica scena. E per far questo, doveva scomparire il suo animatore.
Poco più di cinque anni prima, in Sicilia era stato eliminato Peppino Impastato. Poi, il 6 gennaio del 1980 il Presidente Piersanti Mattarella e, poco prima, Michele Reina, Boris Giuliano, Cesare Terranova, Lenin Mancuso. Nell’aprile del 1982 venne assassinato Pio La Torre e Rosario Di Salvo e, nel settembre dello stesso anno, il generale Carlo Alberto Della Chiesa, la moglie e l’agente Domenico Russo. Nel gennaio 1983 venne ucciso il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto e nel mese di luglio dello stesso 1983 venne eliminato il magistrato Rocco Chinnici assieme a due agenti e all’ignaro portinaio della sua abitazione.
Dopo il delitto Fava seguì un altro numero di delitti e, a conclusione dell’anno 1990, in Sicilia, i delitti di mafia avevano superato il numero di quattrocento. Il giudice Paolo Borsellino dirà: “La mafia detta legge al mondo della politica…perché non può farne a meno…e tende ad esercitare una sovranità assoluta sul territorio ed inevitabilmente è destinata ad entrare in contrasto con chi tende ad esercitare legittimamente la sua sovranità…”.
Ma Giuseppe Fava non fu solo un appassionato giornalista, scrittore, cineasta e un determinato drammaturgo. Fu anche un artista. Tre anni dopo la morte -nel 1987- vennero esposti a Catania per la seconda volta i suoi dipinti. Che, ora, ritornano a Catania. La mostra delle sue opere pittoriche è stata inaugurata il 19 febbraio scorso nella Galleria d’Arte Moderna in Via Castello Ursino e resterà aperta al pubblico fino al 14 marzo prossimo.
Fava, con la sua attività pittorica, ritenne e affermò che anche la pittura è uno stupendo mezzo di comunicazione, capace di raccontare e di denunciare. Anche quei personaggi che dominano la scena con i loro volti fortemente espressivi, raccontano storie e drammi della nostra terra. Colori vivi e sguardi penetranti. Sono immagini che formano un tutt’uno con i suoi scritti. Che li completano e si lasciano completare. La mostra -curata da Giovanna Mori- porta, infatti, il titolo “La pittura come documento, racconto e denuncia”.
Così scrive la curatrice: “Una produzione che, seppure varia nelle tecniche, ha sempre mantenuto un unico fine: raccontare la verità. Osservare, dipingere, incidere e disegnare per narrare con onestà fatti, storie, sopraffazioni e violenze; descrivere l’animo profondo della Sicilia e dei suoi abitanti, la povertà che paralizza l’agire, le piaghe di una terra violentata e ferita e il suo bruciante desiderio di riscatto”.
E ancora: “L’urgenza di comunicare disagi sociali e conflitti ponendo l’attenzione sull’individuo piuttosto che sulla rappresentazione più o meno accattivante della realtà, fece dell’espressionismo un movimento di rinnovamento e di indagine che non si esaurisce nella sua prima stagione. Quando una schiera di artisti fece della pittura uno strumento di denuncia dei nuovi mali che la guerra, la povertà, la corruzione e il disinteresse verso i più deboli avevano generato, piegando il cuore del Paese”.
E’ stato detto che il “linguaggio” di Fava -sia attraverso lo scritto che attraverso il dipinto- continua una tradizione veristica che caratterizza i nostri scrittori isolani. Ma ha una sua peculiarità: una immediata e decisa condanna senza mezzi termini. Fava sbatte con rabbia l’orrore di una verità e grida la necessità immediata di una lotta aperta.
Domenica 15 marzo il nostro Circolo Bohemien discuterà su “Leonardo Sciascia trent’anni dopo”. L’accostamento tra i due grandi scrittori diventa qui allettante. I due personaggi sono contemporanei e si sono interessati al fenomeno della mafia. Ma proprio dinanzi a questo problema lo stesso Fava colloca Sciascia “dalla parte della ragione”. Perché egli, invece, si pone nella posizione di chi sta sempre dentro il problema. Totalmente coinvolto in una profonda passionalità.
Nel maggio del 1983 apparve su “I Siciliani” un lungo articolo di Fava sull’argomento. Per convalidare un suo giudizio Fava si serve di una immagine e afferma: “…E’ come se (Sciascia) entrasse nel teatro in cui si recita l’essere siciliani a spettacolo già cominciato e volesse interpretare i protagonisti solo per quello che dicono. Il resto, il passato, il già detto e già avvenuto, non influisce…”.
Fava dichiarerà di non amare Sciascia ma con onestà intellettuale dirà: “…Probabilmente non è esistito mai, almeno nella cultura, un siciliano che fosse così profondamente siciliano come Sciascia, nella antichissima saggezza, tremila anni di dolore, paure, violenze… E tuttavia nella cultura siciliana non esiste un siciliano capace di guardare ai fatti umani con altrettanto distacco intellettuale, con un cuore così gelido…”. Ma, alla fine dell’intervento, stilando come una graduatoria dei personaggi siciliani più rappresentativi, porrà decisamente Sciascia “a quota cento, unico, lontano da tutti gli altri perché il più geniale, il più riverito, il più venduto, solitario e irraggiungibile”.. E concluderà: ”E questo va detto da un siciliano che non ama Sciascia..”.
Mi preme aggiungere che il Teatro Stabile di Catania ci propose anche un’altra opera di Giuseppe Fava che si distacca completamente dal resto della produzione teatrale. L’autore volge l’attenzione alla persona umana abbandonata che vive il dramma della solitudine e cerca soluzioni esistenziali più dignitosi e sereni. In “Sinfonie d’amore”, Sciascia si riporta alla necessità primaria di risolvere ogni problema individuale e raggiungere una serenità di vita. Si tratta, in fondo, del presupposto per una convivenza sociale dignitosa. E’ un modo come dimostrare di scegliere lo stare accanto alle persone che soffrono e amano l’onestà e la rettitudine. E’, in fondo, il motivo della sua esistenza stroncata.
Per comprendere Fava come scrittore e artista, mi piace citare l’affermazione che egli mette sulla bocca del protagonista nel dramma “L’ultima violenza”: “Io mi batterò sempre per cercare la verità, in ogni luogo ove ci sia confronto fra violenza e dolore umano. E capire il perché”.
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