“I media come mezzo di evasione e di riflessione, una contraddizione conciliabile”

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ATTUALITÀ/CINEMA

A cura di Maria Torrisi

Il mondo dietro di te“, un  thriller apocalittico di Netflix, tratto dall’ omonimo  romanzo di Rumaan Alam, che sta facendo parlare tanto di sé, ha messo a nudo il nostro essere persone, il nostro modo di agire e reagire nei rapporti con gli altri, nei diversi contesti e in questo caso in una situazione di massima emergenza.  Questo film scuote alla pari di un  urto  che fa sussultare, ricordandoci il nostro modo di stare al mondo e il senso assegnato alla quotidianità della nostra vita. 

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Fenomeni strani, suoni assordanti, musiche inquietanti, scene  paurose, sorprendenti e a tratti affascinanti,  che  inducono ad una seria riflessione. 

L’intreccio delle varie tematiche trattate nel film costituisce uno specchio riflettente la nostra società attuale in cui, — sempre più impegnati a finalizzare la propria esistenza al solo raggiungimento di scopi personalistici — si è giunti all’impoverimento delle relazioni con gli altri e al distanziamento tra agire economico e agire morale.

Nel film, sono molti i messaggi veicolati. Vi si coglie la perdita di coscienza del genere umano della sua condizione di far parte di un mondo;  l’assenza di quella consapevolezza che fa avvertire l’esigenza di provare a cambiare il corso della narrazione in cui ci si trova coinvolti; le conseguenze di una umanità spogliata  del suo vero significato, come agente che si trova nella possibilità di poter scegliere liberamente il bene anziché il male, e farsi, dunque, promotore di cambiamento reale; la considerazione sulle azioni nefaste di un Prometeo scatenato, le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, a ogni livello: sociale, culturale, politico, ambientale, etico.

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Violenze di ogni sorta, attacchi terroristici, guerre assurde che seminano morte in diverse parti del mondo; competizione tra democrazie, tra paesi e gruppi che minano la sicurezza economica. “Ci siamo fatti troppo nemici nel mondo, alcuni  di loro si sono coalizzati magari”, risponde Danny, quando Clay gli mostra il volantino con la scritta in arabo “Morte all’America”, e su questo, G.H. Scott, farà poi allusione al depistaggio di informazioni. 

Un Danny, comunque, irriconoscibile, scioccante, insensibile, impassibile, indifferente ai problemi altrui e che solo dopo tante suppliche accetta di aiutare il figlio di Clay.

Nel film viene  ampiamente evidenziata anche l’ossessione per la tecnologia da parte dei due adolescenti Rose e Archie, figli dei Sanford, e il malumore, soprattutto di Rose, per la situazione di “stop” a causa del blackout. I mass media fanno anch’essi la loro parte, dal momento che non si propongono di fornire solo informazioni ma si preoccupano anche di propinare modelli e stili di vita che incitano ad osannare nuovi ed effimeri “valori” immediatamente appaganti, a scapito di saldi orientamenti morali, pur rimanendo innegabili le opportunità che essi offrono.

Suggestive e preoccupanti le inquadrature premonitrici dei cervi che sbucano dagli alberi e avanzano esigendo attenzione, come a voler intimare, a voler lanciare un avvertimento di ribellione per le azioni sconsiderate dell’uomo nei confronti della natura. C’è,  dunque, anche l’ attenzione  ai problemi che affliggono il nostro pianeta Terra, dovuti alla mancanza di rispetto dei vari ambienti da parte dell’uomo, il quale rompendo l’antico equilibrio che lo vedeva unito in un tutt’uno con la natura, vincola quest’ultima a subire lo sfruttamento delle materie prime, il disboscamento, l’inquinamento dei mari, dell’aria, con  il conseguente cambiamento climatico. In definitiva, diritti negati, dignità calpestate, mancanza di responsabilità, di rispetto e cura a ogni livello, umano e non, in nome delle logiche del più forte e del dio Denaro!

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Stando alla prospettiva, “fotografata” nel film, viene spontaneo chiedersi se il progetto di vita dell’essere umano, gli atteggiamenti, le azioni e le scelte da operare sono dunque destinate a cedere il posto a individui atomizzati, appartenenti a masse amorfe e isolate, che cercano consolazione nel virtuale, rifugiandosi nella tecnologia, perdendo coscienza della realtà in cui “stanno”, come se tutto ciò che accade intorno non li riguardi minimamente, “al riparo dei segni”, per dirla con Baudrillard, determinando quella “disattenzione civile” termine con il quale il sociologo Goffman spiega la pratica di non curarsi gli uni degli altri, abbassando lo sguardo ed evitando di guardarsi negli occhi, che se da un lato si qualifica come  “strategia” per non turbare la reciproca privacy, dall’altro, comporta il rischio di una chiusura estrema nel proprio mondo privato, al punto di sfociare, in quella che George Simmel, chiama “invisibilità morale”.  

Un mondo dove gli individui perdono l’identità e dove la responsabilità non ha più volti, né nomi, traducibile in un’assenza di “responsabilità collettiva”.  In uno dei momenti di atmosfera più quieta del film fa da contrasto la “confessione” di G.H. Scott, quando riferendosi ad una “congrega malvagia che governa il mondo”  dirà ad Amanda: “Nessuno ha il controllo, nessuno muove i fili…quando eventi così capitano nel mondo persino i più potenti possono soltanto sperare di ricevere una soffiata”. 

Ma non bisogna dimenticare, come afferma il filosofo Hans Jonas che l’uomo, a differenza di tutti gli altri esseri si distingue per quella che lui chiama “ragione potenziale”,  per cui  il livello di libertà dell’uomo è il livello delle possibilità, in quanto ha la possibilità di poter agire liberamente, di poter scegliere  il modo in cui “stare nel mondo”. 

Sull’ uomo ricade, dunque, la responsabilità delle azioni orientate a se stesso, ai suoi simili e a tutti gli altri esseri che non hanno facoltà di scelta, nell’ottica di una prassi collettiva che deve prendere atto “di ciò che occorre evitare”, ed è proprio da questo sapere che devono scaturire le obbligazioni morali individuali e collettive. La cosiddetta “euristica della paura” jonesiana sta, appunto, nel prendere atto del malum per conoscere il bonum.

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Il rapporto tra l’individuo e il mondo di cui fa parte consta di limiti e libertà.  Liberare la mente, svegliarsi da certi sonni “dogmatici”, per indirizzare le scelte delle proprie azioni, da una parte piuttosto che da un’ altra, può fare la differenza!  

Occorre, dunque, svincolarsi dalle catene intese a immobilizzare  le menti e a uniformare  le scelte individuali e di gruppo, solo in base a certe logiche del mondo. Urge correre ai ripari, nella speranza che  i cuori possano “sciogliersi” e la  “ragione vitale” mettersi in moto. Il  riferimento alla “ragione vitale”  è José Ortega y Gasset, che  nelle sue Meditaciones del Quijote, afferma: “Io sono io e la mia  circostanza, se non salvo la circostanza non salvo nemmeno me stesso”

Quella ragione che è,  appunto, al servizio della vita,  in un determinato contesto, in una specifica situazione, decisione, azione, con cui l’individuo deve fare i conti quotidianamente, in virtù del proprio contributo in termini di “co-costruttore sociale”, sulla base, appunto, della interazione con gli altri, sia nel mondo reale che in quello virtuale. 

Nel film, nonostante la distopia di cui è impregnato, dove il pericolo, l’ansia, l’angoscia sovrastano su tutto, nonostante le continue richieste di certezze di Ruth,  c’è la comprensione, la fiducia  e la flessibilità di Clay, e c’è anche il cambiamento di Amanda, la quale nonostante la diffidenza e la durezza mostrata nella fase iniziale, alla fine riesce ad “ammorbidirsi” e quando si ritrova nel capanno insieme a Ruth, dopo alcune battute  piuttosto animate, riflette sulla vita che conduce ogni giorno, sui propri comportamenti e sui rapporti tra le persone in generale, esprimendo la sua intenzione a volersi liberare da quell’ involucro  che la rende orribile, e dal canto suo Ruth non esita a dire: “Ma per quanto orribili siano le persone, niente cambia il fatto che siamo tutto ciò che abbiamo”. A testimonianza di quanto sia importante il tessere  relazioni positive tra le persone, quali “bisogni effettivi” per il reciproco benessere! 

E in fatto di benessere è da constatare il ruolo rilevante dei media, quale orizzonte di narrazioni in cui l’individuo si rispecchia e dei quali linguaggi si nutre, con un effetto non solo o per niente consumistico, ma anche “compensativo” e “anestetizzante”, come nel caso di Rose. 

Nel tentativo di dimenticare quanto sta accadendo intorno a sé, per evadere da quella situazione angosciante, Rose si immerge in un clima gratificante, in una realtà da cui attingere emozioni, gioia, serenità. Cerca rifugio in una realtà appagante, come quella, appunto, della serie Friends, in cui  trova conforto per sottrarsi a una realtà avversa e lasciarsi “il mondo dietro di sé!”

Su questo aspetto è necessario puntare l’attenzione, quale elemento che tanto ha da dire sulla condizione odierna dei giovani. Aspetto rivelatore del bisogno impellente che i giovani hanno di avere attenzione, a casa come a scuola, nella società, non per avere tutto spianato, ma  per avere fiducia, per vedere soddisfatti i loro bisogni reali, per essere ascoltati, compresi, creduti, amati!

Al momento attuale i ragazzi stanno vivendo in un mondo lacerato da guerre, violenza, che crea solo paura, ansia, angoscia, che non offre loro garanzia di un futuro sereno, per cui, sentendosi “spaesati” e sfiduciati, in una realtà che si presenta ostile, insidiosa, malefica, sono tentati ad estraniarsi, per cercare “Pace” altrove! 

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Rose stessa, quando in piena notte, angosciata per non poter vedere la sua amata serie, alla domanda di Archie: “Ma perché ci tieni tanto a quella serie tv?”,  risponde: Mi fa sentire felice, ne ho tanto bisogno ora, tu no? 

Alla fine del film, ad essere “graziata”, ad aver esaudito il desiderio di vedere l’episodio della sua amata serie Friends, a cui tiene tanto, è solo lei, Rose! Niente ci è dato sapere della fine toccata al resto della famiglia e ai padroni di casa a Long Island. Rose, così sensibile e attenta alle misteriose “apparizioni” e “moltiplicazioni”  dei   cervi, si ritrova al sicuro nel bunker di una casa a poca distanza da quella presa in affitto, per la vacanza, da Amanda, e accedendo ad una porta che conduce in un ambiente buio, trova la manopola per far tornare tutto luminoso e  funzionante! E quando ai suoi occhi si staglia l’enorme parete in cui, incastonato tra gli altri, c’è anche il dvd della sua sitcom preferita, non esita a metterlo in moto, finalmente felice di poter immergersi in quella realtà che la fa stare bene, incurante di ciò che sta accadendo là fuori, dimenticandosi anche della sua famiglia. 

Si deve, dunque, pensare alla “ossessione” di Rose di rifugiarsi in quel mondo di felicità come ad un atto di edonismo individuale ed egoistico, come interpretato da alcuni o dobbiamo invece pensare che c’è di più rispetto a questo?  Sono dell’ avviso che c’è molto di più, che sovrasta il resto, c’è il bisogno, soprattutto dei giovani, di vivere una quotidianità serena, piena di gioia, amicizia, bellezza e bontà, di interscambio di emozioni, sentimenti, affetto e cura che nutrono il cuore e la mente!

Le scene finali ci riservano spiragli di luce, messaggi di speranza e richiami all’ascolto vigile. Nel quadro appeso alla parete dove inizia la scala che conduce alla porta metallica aperta da Rose è impressa la frase: “Hope begins in the dark”, mentre sulla pellicola si staglia la scritta: “La speranza nasce dall’ oscurità”.

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Non ultimo il riferimento ad una umanità che non vive per nulla l’esperienza teologica di un rapporto autentico con Dio. A tal proposito ancora una volta Rose, con la profondità del suo “sentire”, racconta alla mamma dei tanti avvertimenti  lanciati da Dio ad un uomo, in un storia raccontata in un film da lei visto tempo fa. Il protagonista della storia, un uomo che non presta  ascolto a messaggi e richiami, che non accetta offerte di aiuto, alla fine muore e giunto in Paradiso, molto arrabbiato si rivolge a Dio: “Ti ho pregato ogni giorno, pensavo mi amassi, perché non mi hai salvato?” Nel film la risposta data da  Dio all’uomo, viene svelata sempre da Rose, l’ unica tra i personaggi che, rivolgendosi alla mamma, dice: “Non voglio più aspettare”.

Ecco, oltre la speranza, o meglio, ancor prima della speranza, il film lancia un  messaggio fondamentale: non è più tempo di aspettare, bensì è tempo di “agire”, puntando alla progettazione e al sostenimento del “cambiamento” effettivo, a livello familiare, scolastico, sociale e politico, in termini di correttezza,  responsabilità e cura, in un’ottica integrata di benessere per tutti e per ciascuno

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