Racconti del Corso di scrittura creativa – Nuove Edizioni Bohémien – Maggio 2014
Docente: Maria Cristina Torrisi
Quei dettagli vibrarono un’ultima volta. Alla fine trovò la forza di volgere lo sguardo altrove. Guardò il volto spazientito della donna che aveva al fianco e cercò tra i suoi lineamenti un’ombra di quei tratti netti che così tanto lo avevano affascinato.
« Dovremmo andare, signor Smith », le sentì dire, come per ammettere quanto sfocata doveva apparire, se messa a confronto con quel dipinto fiammingo. In assoluto silenzio, uscirono dal museo solo qualche minuto dopo.
Per avere solo ventiquattro anni, Margaret Brown dimostrò di possedere abbastanza saggezza e buonsenso da non proferire altro finché insieme non giunsero al centro di Trafalgar Square.
« A domani, sir ». Un cenno lieve del capo e sparì.
Di tutte le segretarie che aveva avuto, probabilmente la signorina Brown era la migliore. Grande lavoratrice e dai modi cortesi, al limite del nauseabondo, reggeva discretamente i suoi ritmi. Tra le scartoffie burocratiche e il grande flusso di utenti, non doveva essere facile stare dietro al curatore del National Gallery.
Quasi attratto da una forza sconosciuta, George Smith girò i tacchi e rientrò nel museo. Dato che l’ora di chiusura era passata da un pezzo, non si stupì del silenzio che avvolgeva l’intero palazzo, né tanto meno di trovarvi il custode notturno comodamente abbandonato su una poltroncina all’ingresso. Chiaramente, l’uomo non reputava di incontrare anima viva prima della fine del suo turno di lavoro.
« Mi trattengo solo un attimo », accennò Smith al suo indirizzo. « Non faccia sforzi ».
I passi, echeggianti e ritmici, si persero nell’atrio d’ingresso. Il curatore scrutò gli angoli del suo museo, che dolcemente perdeva la luce diurna per immergersi nel buio della sera. Attraversò una grossa porta in legno massello, la prima sulla destra, gettando appena lo sguardo sulla dicitura della targhetta. Appena entrato, subito volse il passo alla parete alla sua destra, fermandosi al cospetto del quadro al centro di essa; era il più bello, il più famoso, quello che attirava milioni di persone in quella stessa stanza ogni anno. Strano. Fosse stato appena qualche anno prima, nemmeno avrebbe pensato di intrattenersi oltre l’orario di lavoro per contemplare proprio quel dipinto. Eppure, col tempo, un piccolo, fortuito avvenimento può diventare abitudine, svolgersi con naturalezza e diventare infine un vero e proprio rito. I contorni delle figure al centro del quadro erano smussati, appena accennati, gettati senza remore, più a raccontare l’idea dell’oggetto che l’oggetto in sé. Il signor Smith ripensò al quadro fiammingo che aveva scrutato insieme alla sua segretaria e a come aveva cercato sulla espressione di lei una così cura dei dettagli.
« Sa cosa penso? Che se lei ne avesse le capacità, squadrerebbe il mondo », gli sembrò di poter sentire quella voce dentro la sua testa, come un suono lontano, sprofondato nel pozzo del suo passato e pronto a riemergere in qualsiasi momento.
« Cosa ne pensa? ». Questa volta, la voce giunse da un luogo più vicino, collocato in un angolo all’interno del labirinto della sua mente. In realtà, George Smith non riuscì a capire se a parlare fosse stata o meno la sua stessa coscienza. Poi, il ricordo di Elizabeth si insinuò vivido e potente; come una tela bianca, la sua memoria iniziò a macchiarsi di dettagli e colori che lentamente lo riportarono al passato.
« Sa qual è il mio preferito? »
« No ».
« “I girasoli” ». Un sorriso ampio si aprì sul volto di Elizabeth. Col suo sguardo, incorniciato dai capelli neri e illuminato dagli enormi occhi, appariva quasi come una bambina di fronte a una bambola nuova.
« Prevedibile ». Smith fissò i propri occhi su quelli di Elizabeth. Le loro figure restarono immobili, una di fronte all’altra, gli sguardi congelati come colti da un’improvvisa e proverbiale paralisi. La ragazza socchiuse le labbra sottili, pronta a ribattere prontamente. Tuttavia, si voltò e raggiunse la porta dell’ufficio del curatore. I suoi passi, marcati di rabbia, si persero tra l’antichità ovattata del tappeto persiano. George osservò la sua lunga chioma corvina ondeggiare al ritmo del suo portamento cadenzato, timida come una fanciulla dietro la maschera della spavalderia, ma combattiva come la più forte delle donne.
« Ma non voglio criticare i suoi gusti », aggiunse infine, poco prima che la ragazza potesse uscire dal suo ufficio.
Elizabeth si voltò di scatto, e di nuovo quella loro conversazione si plasmò in un incontro di sguardi. La tenue luce del tramonto perforò il vetro della finestra dietro la scrivania, colpendo il corpo di lei e modellandolo in una danza di splendidi contrasti. Tutto in quella stanza, dalla precisa collocazione dei libri alle cornici dei quadri maniacalmente parallele tra loro, impallidiva al cospetto di Elizabeth. Non era perfetta, il suo corpo non era esattamente snello e il suo viso non poteva avere la pretesa di apparire in una qualche rivista di moda. Ma nel suo complesso, Elizabeth risuonava di una armonia tale che nel silenzio del National Gallery poteva risultare assordante.
Il peggio sembrò passare, i muscoli del volto di lei si distesero, prima di contrarsi nuovamente in una pallida, ma cortese, imitazione di un sorriso.
« Perché proprio quello? ». L’uomo non dovette nemmeno specificare l’oggetto di quella domanda. Si stava rituffando nel mare della loro discussione, apparentemente conclusa. Dentro quelle acque, con sé, avrebbe trascinato Elizabeth.
« Sono concreti, reali, come i fiori di casa… ». La ragazza sospese quell’accenno di spiegazione, sfumando le sue parole nel mezzo della quiete dello studio. Respirò a fondo e aggiunse: « Ovviamente, non ha la stessa cura dei dettagli degli Arnolfini di Van Eyck, per esempio. Ma provi a sedersi sulla panca della sala, fissi il quadro. Per me, ogni volta è come guardare fuori da una finestra aperta, con il vaso di girasoli sul davanzale ».
Solo a pensarci, il signor Smith sorrideva. Bastava il ricordo di quell’incontro per suscitare in lui una smorfia divertita, una di quelle che il più delle volte negava al resto del mondo per la sua austerità e presenza cupa. Dopo quella conversazione, si era seduto di fronte a quel quadro, ripetendo il gesto in altre occasioni. Come aveva fatto quella sera, mentre il sole spariva al di là degli edifici di Londra. Anche durante quel tramonto, si era seduto sulla panca della sala numero quarantacinque, sotto i colori accesi de “I girasoli”, alti e fieri, nonostante il sole morente sulla città.
George si chiese se quel giorno, nel suo studio, Elizabeth si fosse accorta delle tele lasciate a impolverarsi in un angolo. Forse, sarebbe bastata un’acuta osservazione per notare le stesse tonalità accese che lei ammirava nei quadri di Van Gogh e così il nome del curatore inciso in nero nell’angolo in basso a destra di ogni dipinto. Il signor Smith ricordava ancora la prima volta che aveva acquistato dei colori. Era stato il primo giorno dei corsi alla scuola d’arte, quando al pomeriggio si era addentrato timidamente in un negozio d’arte, dotato di una lunga lista di strumenti e accessori utili per il suo studio. Aveva brandito quel foglio come un tesoro, un lasciapassare per il mondo degli artisti e della pittura, la sua vecchia ma pur sempre sbalorditiva amante. Alla fine però era giunto il severo giudizio, e le sfumature a lungo ricercate finirono per assumere i contorni della sua resa.
Di nascita francese, naturalizzato inglese, il professor Fleury era dotato di una cultura artistica capace di mettere in difficoltà anche i più ferrati in materia. Col passare degli anni, era diventato la voce più autorevole in campo pittorico della Gran Bretagna. Giovani artisti da tutta la nazione aspettavano mesi pur di avere un suo parere e pochissimi erano i privilegiati a poter seguire una sua lezione di pittura. Tra questi, gli studenti del prestigioso William Turner College, a cui il giovane George Smith era stato orgogliosamente ammesso. Alla fine del corso, il professor Fleury era solito chiedere agli studenti un quadro da poter visionare. Il suo era un maldestro tentativo di trovare qualche germoglio di un talento artistico da estirpare dal terreno dell’anonimato. L’anno da matricola di George non fece eccezione. Una mattina di giugno, tutti gli studenti portarono i propri lavori. L’ansia sembrava essersi trasformata in un’epidemia istantanea, tanto che nessuno studente sembrò restarne del tutto immune. George aveva disegnato un paesaggio rurale, un brillante manto d’erba di tutte le sfumature di verde, fino ai gialli e i marroni, il cielo limpido e un paesino all’orizzonte.
« Sempre le stesse cose », disse Fleury appena il ragazzo spinse il quadro nel suo campo visivo. Poi, aggiunse: « Non dice nulla di nuovo. Il solito paesaggio, i soliti colori, le solite case. E la prospettiva non è granché. Sembra il disegno di un bambino ». E lo scacciò con la sua coda, continuando a ruminare l’autorevolezza del suo nome e del suo titolo, come una mucca quando allontana le fastidiose mosche senza smettere di cibarsi di erba. In quel caso, il professor Fleury aveva divorato il prato del paesaggio di George Smith. Dopo quel commento, non gli era rimasto altro che rinunciare. Tolse tutti i corsi pratici e si specializzò in storia dell’arte e tecniche di disegno, diplomandosi con il massimo dei voti e asfaltando d’oro la pista della sua carriera in pieno decollo. A soli quaranta anni divenne curatore del National Gallery.
Si alzò dalla panca e raggiunse l’uscita della sala. All’ingresso ritrovò la guardia, composta e all’erta come avrebbe dovuto trovarla la prima volta che l’aveva incontrata quella sera.
« Signor Smith, sir. Sto per attivare il sistema di allarme », gli comunicò con tutta la cortesia e la compostezza di cui disponeva. George lo guardò con un accennato sorriso.
« Esco immediatamente. Buonanotte ». Congedandosi, si strinse nel cappotto e uscì dal museo. Trafalgar Square era sempre un via vai di persone, per la maggior parte lavoratori della City che tornavano a casa dopo una giornata di lavoro. Si fermò un attimo a contemplare lo spettacolo della città per metà immersa nel buio della notte. Le due fontane della piazza, perfettamente simmetriche rispetto all’uscita del museo, spruzzavano vivacemente la loro acqua, a dispetto dell’aria sospesa tra il tramonto e l’obelisco al centro di esse, immobile e pesante contro il cielo londinese. Sullo sfondo, il Big Ben sembrava minuscolo, nascosto dagli edifici in primo piano, un bimbo in fasce attorniato dalle braccia di una madre premurosa. Smith scese le scale e raggiunse l’altro lato della piazza. Entrò in metropolitana alla stazione di Charing Cross, in direzione di Knightsbridge, il quartiere dove abitava. In treno, ripensò ancora a quella conversazione con Elizabeth e alle molte altre che ebbero nei mesi a seguire. Non era stata, come Margaret, una segretaria tanto silente quanto diligente. Ai tempi, lei era un’aspirante artista con ambizione e occhi per vedere dove la stanca vista di George arrancava. Tuttavia, nonostante le ottime premesse, il loro rapporto si era sviluppato in un conflitto. Da anni, nessuno aveva osato mettere bocca sui suoi pareri e sulle sue decisioni finali, a causa del ruolo di prestigio che ricopriva. Tranne Elizabeth. Smith pensò a quante volte aveva pensato di distruggere la carriera di quella ragazza, e in quante altrettante occasioni, aveva negato a se stesso la possibilità di cedere al suo impetuoso orgoglio. Non avrebbe accettato di trasformarsi nella reincarnazione dell’uomo inflessibile e spietato che aveva segnato i suoi anni da studente. Provò a conoscerla, e col passare dei mesi scoprì un lato della ragazza che non credeva potesse esistere. Elizabeth mostrava di conoscere dettagli tecnici incredibilmente sofisticati e riferimenti degni di un affermato studioso di storia dell’arte. Ma più di ogni altra cosa aveva un genuino amore per l’arte. E forse era stato quest’ultimo dettaglio a fare la differenza.
Tornò a casa che si era già fatta sera. Il suo appartamento era immerso nel buio, e i contorni dell’arredamento risaltavano, appena percettibili, nella fioca luce che filtrava dalle finestre. Smith gettò il cappotto e la borsa da lavoro sul divano. Poi, raggiunse l’altro lato del salotto e sparì dietro una porta. Aveva molti ricordi dei momenti passati con Elizabeth, ma tra tutti quello che più gli era rimasto impresso non era la giornata uggiosa in cui la ragazza aveva lasciato il National Gallery. Più che altro, spesso si sorprendeva di tornare con la mente al giorno in cui lei gli aveva comunicato che avrebbe lasciato il suo lavoro appena una settimana dopo. Aveva ricevuto l’opportunità di organizzare per un’azienda londinese una serie di mostre d’arte in tutta la città. Era quel genere di occasioni che capitano soltanto un paio di volta nella vita. Nell’apprendere quella notizia, il signor Smith aveva mantenuto un profondo e inespugnabile silenzio. Poi, ebbe il moto di un sorriso, una smorfia leggera e colma di rassegnazione. Un respiro e parlò, come mai prima di allora. Le raccontò del William Turner College, dei suoi dipinti e di Van Gogh. Le disse di come aveva socchiuso una finestra alla luce di quei girasoli, di come invano aveva tentato di capire loro e la ragazza che così tanto li amava. Elizabeth ascoltò senza rispondere. Quella confessione l’aveva spiazzata e commossa, ma non ebbe l’ardire, almeno quella volta, di ribattere. Non ne parlarono più, il loro tornò il gioco di ripicche e discussioni che era sempre stato. Sette giorni dopo, di Elizabeth ne era rimasto solo il ricordo. Ma la memoria dei loro conflitti aveva lasciato un pennello, un regalo legato da un nastro di colore giallo splendente, solo sul legno duro e scuro della scrivania dell’ufficio del curatore. Elizabeth doveva averlo lasciato lì poco prima di tornare a casa.
George prese il regalo di Elizabeth dal tavolino appena al di là della porta che dava sul salotto della sua abitazione. Un passo dopo l’altro si avvicinò a una candida tela su un cavalletto. Aveva capito, in quei mesi, la forza dei ricordi, quanto ogni momento di confronto con Elizabeth aveva dato una piccola spinta alla finestra della sua mente, quella con i girasoli sul davanzale. Quasi sentì il tepore del colore impregnare le setole del pennello, mentre lo immergeva nelle pozzanghere della tavolozza che aveva preparato. Impacciato e incredulo, riprese un gesto che a lungo aveva tenuto nascosto. Il tratto che ne risultò sembrò una ferita gialla su un vuoto pallido. Un primo, luminoso dettaglio.
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