Recensioni
A cura di Giovanni Vecchio
La scrittrice russa Aleksandra Toliverova incontra Garibaldi a Caprera nel 1872.
Giuseppe Garibaldi, quale co-protagonista dell’unificazione dell’Italia, è una figura di cui la storiografia si è ampiamente occupata.
Uomo scomodo od utile, a seconda delle circostanze, personaggio controverso, ma inevitabilmente dentro i fatti con il piglio dell’uomo d’azione che non ama gli assemblearismi e le sottili azioni diplomatiche, sempre pronto a mettersi all’opera per la libertà, a favore degli oppressi e con una visione radicale e vagamente umanitaria e repubblicana. I profili forniti dagli storici, a cominciare da quello ormai classico di Denis Mack Smith fino all’altro di Montanelli e Nozza, ci restituiscono un’immagine in chiaroscuro del personaggio con i suoi pregi e i suoi difetti, le sue risorse umane e i suoi limiti. Le sue “Memorie” intrise di ricordi più volte rivisitati alla luce degli eventi successivi ci danno la misura dell’uomo con la sua ingenuità e i suoi ideali. E’ difficile, invece, rintracciare un profilo dell’uomo e del condottiero visto da una donna, certamente attratta dal suo fascino di eroe leggendario, ma attenta anche ai dettagli e ai particolari che forse non interessano molto lo storico, ma delineano una prospettiva inedita e per certi versi interessante.
La scrittrice russa Aleksandra Toliverova (1842-1918), alla fine del 1868 viveva a Roma e lì trascorse sei mesi fra i garibaldini feriti che erano stati portati in ospedale dopo la sconfitta di Garibaldi a Mentana. Da allora cominciò a tenere contatti epistolari con Garibaldi e rimase in attesa di poterlo conoscere personalmente. Nel 1872 le si presentò l’opportunità di andarlo a trovare nell’isola di Caprera dove si era rifugiato assieme ai suoi fedelissimi. Di questa sua esperienza emozionante, di cui diremo, la scrittrice russa scrisse delle pagine interessanti sulla rivista “Sipovnik” nel 1909, un numero unico dedicato all’Italia i cui proventi erano destinati alle vittime del terremoto di Messina del 1908. Molti furono gli scrittori russi che collaborarono all’iniziativa, simbolisti come come Blok, Brjusov, Merezkovskj e la Hippius, narratori come Andreev, Tolstoj, Sologub, Kuprin, favolisti come Remizof, i fondatori del movimento letterario dell’Acmeismo Gumulev e Gorodeckij e diversi traduttori di opere di autori stranieri; unico autore non russo fu Anatole France. La Toliverova decise di inserire nel numero unico il ricordo della sua visita a Garibaldi nell’isola di Caprera nel 1872. Teniamo presente che i primi soccorsi ai terremotati di Messina furono portati dai marinai russi superando qualsiasi contrasto ideologico e politico. Il merito di averci fornito una versione italiana di questo saggio pieno di ricordi personali della Toliverova è di Rosanna Di Prima, che ha curato pure una breve introduzione all’edizione italiana pubblicata da Sellerio nel 1992 e intitolata semplicemente ”Giuseppe Garibaldi”. Il legame dei russi con l’Italia e la Sicilia, al di là dell’atto di solidarietà del momento, si deve anche, secondo la Di Prima, alla “simpatia, vorrei dire, l’amore non solo dell’intellighenzia, ma di tutto il popolo russo, , nei riguardi del popolo italiano e soprattutto siciliano, altrettanto . Non era infatti una regione qualsiasi del mondo a subire, ancora una volta, un’offesa”, anche se dalla natura, ma era la Sicilia, con la sua storia, i figli della Sicilia amanti della libertà da sempre soggiogati da dominatori vecchi e nuovi”.
La rivista “Sipovnik” si apre con la storia della Sicilia piena di miti e leggende, così come immaginata dagli intellettuali russi, molti dei quali tra fine Ottocento e inizi del Novecento scelsero l’Italia come luogo di esilio e patria adottiva non solo per il passato artistico e il clima, ma anche per gli abitanti perché con essi si sentivano come a casa loro. Ciò che colpiva gli intellettuali russi nel grave frangente dell’evento sismico del popolo siciliano era il misto di tristezza e allegria, che tanto richiamava l’antitesi “morte-vita” della letteratura e della musica russa dell’Ottocento.
Lo scopo di Alekandra Toliverova non era quello di scrivere una biografia di Garibaldi, anche se quando si apprestava a preparare il suo intervento per la rivista da poco erano terminati i festeggiamenti per il primo centenario della nascita di Garibaldi (era nato il 17 giugno 1807). Ella accenna al padre Domenico, capitano di un mercantile, con il quale Giuseppe, ancora ragazzo, aveva visitato vari paesi giungendo anche a Odessa. Ma l’attività commerciale non era il suo “forte”, si sentiva attratto dall’ideale “di una grande attività politica”. Egli era convinto che “l’uomo che non è libero non può essere felice”, perché la vera felicità è nella libertà, nell’affrancamento dal giogo straniero. Dopo Mentana la Toliverova tenne i contatti con Garibaldi tramite il suo amico Castellazzo, autore del romanzo storico “Tito Vezio”, che era stato condannato a morte, ma la sentenza non fu eseguita e fu aiutato dagli amici ad evadere. La scrittrice russa avrebbe voluto incontrare subito Garibaldi a Caprera, ma dovette attendere che l’eroe tornasse dalla Francia dove era andato a combattere, come ha scritto D. M. Smith nella sua monografia su Garibaldi, “per una nazione diversa dalla propria” per “la sua natura impetuosa e generosa”, non sopportando di essere stato messo in disparte nella solitaria Caprera “mentre i conservatori monopolizzavano e degradavano tutta la vita pubblica italiana”.
La Toliverova il 18 giugno 1872, in una giornata bellissima e caldissima, dopo una notte insonne per timore di non svegliarsi in tempo, si imbarcò sull’unico battello che una volta la settimana faceva servizio tra Livorno e Caprera. Descrive le poche cose che aveva portato con sé e dichiara di aver superato anche la paura di viaggiare per mare pur di riuscire ad incontrarsi personalmente con questo personaggio tanto esaltato e “mitico”. Arrivò al porto molto presto e si imbarcò sul battello “Piemonte”. Durante il viaggio le fu raccontata l’impresa dei Mille mentre sfrecciavano come nuvole le isole Gorgone, Caprara, Montecristo, Elba e, dietro, la Corsica. Presso la nave sbucavano i delfini e molti uccelli, che si lanciavano in acqua attratti dai pezzi di pane gettati dai viaggiatori. Dopo apparve Cavallo, un’isola di granito, poi le isole Lavezzi e di Santa Maria. Il mare era calmo e trasparente. Finalmente un fischio preavvisò che si stava per giungere alla Maddalena, che dista da Caprera circa tre quarti d’ora. La scrittrice chiese al capitano dove si trovasse Caprera e quello indicò una roccia nera con un puntino bianco in mezzo, le porse il binocolo e precisò che il puntino bianco era la casa di Garibaldi. Quando andò a prendere il suo bagaglio si trovò accanto tre italiani, il primo era alto e vestito di nero, era Coccapieller che aveva combattuto con Garibaldi nel 1868 a Mentana, il secondo con un poncho americano era il figlio del generale Stefanelli e veniva da Montevideo, il terzo si chiamava Valle ed era un semplice volontario. Dopo la sosta a La Maddalena, ospiti di una vecchietta con cinque figlie e molti nipotini tutti assiepati in una stanza, che le raccontarono le vicende dell’isola, alle quattro e mezza del mattino tutti e tre si avviarono verso il porto. “Il mare era calmo; nessuna nuvola in cielo; le isole circostanti dormivano ancora; rari gli uccelli”. Coccapieller durante il percorso parlò di Garibaldi e disse che trovava sempre una buona parola e anche, quando era necessario, forniva un aiuto materiale, ma viveva come un poveraccio. Lo delineò come un altruista in nome del bene comune, senza alcun interesse per la propria comodità. Dopo un quarto d’ora comparve Caprera. “Su questa roccia grigia, spiccava una casa bianca ad un solo piano a sinistra, con un tetto piatto ed una cupola a due piani con terrazza, a destra, Davanti si vedeva un piccolo belvedere; a sinistra, un edificio bianco; dalle pale rosse si capiva che era un mulino a vento. Tutt’intorno si trovava una gran quantità di rocce di granito che formavano un porto naturale, intorno al quale venivano ad infrangersi le onde … Quando mettemmo piede a terra su Caprera, ci investì un fresco aroma di erba. La strada saliva ripida e noi, sotto i cocenti raggi del sole, affrontammo la salita”. Tralasciamo il racconto della prima casa di Garibaldi nell’isola in cui aveva abitato con i suoi figli Menotti, Ricciotti e Teresita, e dell’altra, che fece costruire nel tereno che acquistò dal governo grazie all’eredità di quattromila franchi lasciatagli dal fratello. Concentriamoci invece sull’incontro con Garibaldi, il quale “era seduto su una semplice sedia di paglia, davanti ad una lunga tavola che un tempo era stata nera. Aveva davanti a sé un mucchio di giornali. Indossava una camicia di tela bianca a pisellini neri, un fazzoletto di seta nero al collo, un fez di cashmire ricamato di seta, da sotto il quale si potevano scorgere i capelli brizzolati abbastanza lunghi e di color biondo scuro. La barba tagliata corta era più bianca, ma non del tutto”. Lo sguardo femminile, come si può notare, focalizza aspetti “estetici” che fanno intuire quelli psicologici e comprtamentali. Appena vide l’attesa ospite si alzò con l’aiuto delle stampelle e le porse la mano. La ringraziò per l’aiuto dato ai garibaldini: “Sono cose che non si dimenticano – disse – so con quanto affetto li avete curati. So tutto. So come li hanno torturati. Voi avete alleviato le loro sofferenze …”. Continuò dicendo che Castellazzo gli aveva parlato di lei e come con le sue semplici parole lo avesse aiutato a sperare di non essere ghigliottinato. “Sì – aggiunse Garibaldi – nel 1867/68, i santi padri di Roma erano assetati di sangue. Adesso, questi spergiuri si sono calmati”. Mentre l’eroe parlava, Alekandra lo scrutava con sguardo di donna attenta ai dettagli. “Ad un certo punto si tolse il fez ed io vidi la sua fronte ampia, bianca come avorio, senza ombra di rughe. I suoi capelli erano abbastanza radi e quasi completamente bianchi; le sue belle e folte sopracciglia scure, come quelle degli antichi, risaltavano sugli occhi castani dalle lunghe ciglia. Il naso, abbastanza grande, formava una sola linea con la fronte; il viso era ancora fresco. Quando parlava, spesso sulle sue labbra ben disegnate appariva un sorriso che conferiva agli occhi e a tutto il viso un’espressione bonaria e infantile. Nonostante gli anni, i denti erano bianchi e forti. Di statura media, era piuttosto eretto e abbastanza in forma. Le mani avevano perduto la loro bellezza, poiché le dita erano incurvate a causa dei reumatismi”. Difficilmente un uomo si sarebbe soffermato ad evidenziare in forma analitica tutti questi particolari, tranne forse per esigenze letterarie. La Toliverova continua descrivendo la casa con il relativo arredo e annota che “sul camino era appesa una fotografia del battello Piemonte, su cui avevamo viaggiato noi e col quale Garibaldi aveva conquistato la Sicilia; accanto a questa foto ve n’era un’altra col monumento di Alfieri”. Coccapieller gli lesse un biglietto della “Giovane Italia” e di operai romani e alla fine della lettura Garibaldi lo abbracciò e disse: “Quando ritornerete a Roma, riferite alla e agli operai romani che stimo moltissimo la fiducia riposta in me, che io non merito, anche se la mia coscienza nei loro riguardi è pulita. Un paese non deve però fare affidamento su un solo uomo. Esso deve avere fiducia nelle proprie forze e non in un debole mortale come me, che è riuscito a fare qualcosa. La felicità di questo povero popolo italiano mi è stata sempre cara. Io soffro perché il governo italiano non dà voce ai desideri della nazione; la nazione è nel popolo che è ovunque buono: in Italia, in Francia, in Russia”. Accompagnò quindi Aleksandra nella stanza che era stata di Ricciotti ed era piena di libri ed armi antiche; c’era anche la poltrona-letto sulla quale Garibaldi era stato operato per l’estrazione di una pallottola durante il conflitto in Aspromonte. E qui l’autrice richiama i fatti ben noti del 1862 quando Garibaldi con duemilacinquecento uomini si stava dirigendo verso Roma per liberarla e si scontrò non con l’esercito borbonico, austriaco o papale, bensì con le truppe del governo italiano che lo trattenne per alcuni mesi in prigione per poi, ferito e ammalato, spedirlo a Caprera. Per dire in breve sorvolando su altri particolari, riferiamo delle abitudini del “generale” in base a quanto dichiarato da Basso, uno dei suoi collaboratori per la cucina: “Garibaldi si alza alle quattro, beve del latte di capra, raramente del caffé, e poi va a fare una passeggiata. Quando ritorna, verso le sette, legge e scrive qualcosa, poi mi detta delle lettere. Abbiamo infatti da sbrigare una grandissima corrispondenza. Alle otto, pranziamo. Dopo il pranzo, egli si riposa un paio d’ore, poi ha sempre qualcosa da fare. La sera fa ancora una passeggiata. Alle otto ceniamo e poi, prima di andare a letto, Garibaldi beve un po’ di latte”. Durante il pranzo Aleksandra conobbe altri collaboratori come l’operaio Barberini, uno dei soldati più valorosi che si occupava a Caprera di tutti gli aspetti meccanici, dalle pompe alla macchina per la fabbricazione dell’olio. Per l’occasione sulla tavola era stata messa un’incerata, ma abitualmente si mangiava sui giornali. Si affacciavano alla finestra frattanto i due cavalli “Marsala” e “Mentana” che avevano accompagnato garibaldi nelle sue imprese e che aspettavano la loro consueta porzione di pane, a cui fece seguito il raglio di un asino, il quale fu presentato ad Aleksandra col nome di Pio Nono, con allusione fin troppo manifesta al pontefice romano dell’epoca. Dopo un po’ di riposo andò a fare un bagno in quel mare di velluto e neanche in questo caso l’autrice può fare a meno di esprimere le sue sensazioni e i suoi sentimenti: “Il celeste del mare, il sole, le capre selvatiche che saltellavano da una pietra all’altra, quella quiete suscitarono nel mio animo un sentimento finora sconosciuto … Mi venne chissà perché da piangere e da pregare”. Quando la sera rientrò nella sua camera Aleksandra la trovò ben ordinata e su un tavolinetto presso il capezzale c’era un mazzo di rose assieme ad alcuni giornali sottolineati in rosso e sopra di essi un biglietto “Buona notte. Garibaldi”. L’indomani Aleksandra si recò nello studio di Garibaldi per portargli in regalo due camicie rosse da garibaldino, una di seta e un’altra di tela, che l’eroe gradì molto, la ringraziò e l’abbracciò, ma la nostra autrice non manca neanche in questo caso di notare che lo “studio di Garibaldi aveva una finestra, abbastanza grande, che dava sul giardino. La terra di questo giardino l’aveva portato lui stesso da Nizza. Il suo studio era forse la stanza più piccola di tutta la casa. Di mobili, un semplice letto di ferro che, al posto della coperta, aveva un poncho militare grigio scuro con strisce nere e bianche, ed alcune sedie molto semplici. Al capezzale, vidi un ritratto di sua moglie Anita ornato di fiori e un medaglione con una ciocca dei suoi capelli. Alle pareti, erano appesi ritratti della madre, dei figli e altre fotografie di parenti e amici”. Avvicinandosi l’ora del pranzo, Garibaldi conversando con Valle si dichiarò preoccupato per la situazione della classe operaia a Roma, ormai diventata capitale d’Italia e si dispiaceva di non poter fare niente per loro. Riferì che una delegazione di cittadini romani gli aveva preannunciato che si stava provvedendo ad una raccolta in tutta Italia per comprargli una villa a Roma ed egli mostrò di approvare l’iniziativa purché la villa venisse destinata a rifugio per i garibaldini anziani e invalidi. E aggiunse che “fra di loro, vi sono … molti ciechi e non si può assolutamente permettere che essi vagando per Roma o per l’Italia, siano costretti a tendere la mano a preti e monache…” e proseguendo si augurò che i figli, i nipoti e i pronipoti potessero trovare in questa villa scuole “dove imparare, oltre a leggere e scrivere, i vari mestieri”. Queste le sole condizioni per accettare il dono. La conversazione proseguì dopo il pranzo con Barberini che le mostrò la prima casetta di ferro abitata da Garibaldi, che gli era stata inviata dagli inglesi. Poi il discorso si spostò sul lavoro a Caprera e su come si provvedeva alla sussistenza e al pagamento delle tasse. Barberini testimoniò sulla sobrietà di Garibaldi: “Tutta la sua vita è stata e continua ad essere una serie di limitazioni”; poi le mostrò la barchetta sulla quale nel 1868 Garibaldi fuggì da Caprera nonostante la difficoltà a remare per i reumatismi che gli avevano colpito le mani, mentre lui si travestì da Garibaldi per ingannare gli ufficiali di guardia sulla nave. La mattina dopo, prima della partenza, il commosso addio. Garibaldi accarezzò i capelli di Aleksandra e le disse: “Non rattristatevi, partite contenta. Le donne come gli uomini devono prendere parte al movimento di liberazione del proprio paese” e le consegnò una lettera con questo messaggio: “Caprera 24 luglio 1872. Sig.ra Alessandrina, nulla dirò del governo presente della Russia – soltanto che il sovrano della stessa può gloriarsi dell’emanipazione dei servi – che speriamo veder completa. Tale aureola di gloria è preferibile certamente ad ogni conquista. Io con voi invio un simpatico e affettuoso saluto al vostro bravo popolo che tanta parte deve prendere ai venturi destini del mondo. Sempre Vostro, G. Garibaldi”.
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