RECESIONI ED EVENTI
A CURA DI MARIA CRISTINA TORRISI
“…A S. Pietroburgo, racconta Isaac Babel, gli studenti, quando arrivò l’attore, stesero ai suoi piedi le loro pellicce per non fargli bagnare i mocassini leggeri che portava. Fu osannato…”
A Catania, in una elegante dimora, un grande attore scomparso negli anni ’30 fa parlare ancora oggi di sé: rivive attraverso le rimembranze dei suoi cari che con cura hanno raccolto quanto più ricordi a testimonianza di un trascorso che può vantare di essere definito glorioso.
Il nome di Giovanni Grasso non è stato dimenticato, non può esserlo…
Ritrovarsi in una stanza corredata da un centinaio di foto che raccontano alfa e omega della vita del Grasso, immersa con autentica passione sul palcoscenico, lo dimostra. Mille volti, tantissime espressioni, diversi personaggi, racchiudono l’uomo e l’artista, intuitivo, brillante, geniale interprete, che con puro realismo si cala nei contesti del palco in maniera tangibile, come appartenenti alla sua stessa vita.
L’impressione che ci coglie, quasi di sorpresa, in un piccolo museo a lui dedicato, è quello di ritrovarsi con un passato ed un presente strettamente legati, che hanno bisogno di un magico filo conduttore per sopravvivere nello spirito del teatro, quello vero.
Ad ospitarci e a rispondere al nostro desiderio di conoscere è il nipote dell’attore, regista e scenografo, che oltre al suo nome ha ereditato la stessa passione per il teatro appartenuta al nonno. Con lui facciamo diversi passi indietro nel tempo per intraprendere un piacevole viaggio che abbandona in noi l’idea della tradizionale intervista.
Chi era Giovanni grasso e come nasce la sua carriera?
“Mio nonno, -ci racconta il nostro interlocutore- apparteneva ad una famiglia di teatranti dell’Opera dei Pupi. Nacque nel teatro Machiavelli, costruito dal padre, don Angelo Grasso, un puparo a quei tempi famoso, rimasto ancor oggi celebre per l’esagerata grandiosità che imprimeva alle azioni dei suoi paladini, al punto che il pubblico spesso lo beccava: “Grossa, don Angelo!”. Il teatro sorgeva in Piazza Università a Catania, esattamente nel Palazzo di S. Giuliano, dove oggi sorge la Biblioteca Universitaria. Lì si svolgeva appunto l’Opera dei Pupi. L’abilità di mio nonno consisteva nel saper fare, dietro le quinte, il manovratore dei pupi e dare le voci ai vari personaggi di Orlando, Gano, Carlo Magno…”.
A quei tempi, nel teatro veniva rappresentata la saga dei Paladini nella cosiddetta “La rotta di Ronsisvalle” e buona parte dei pupi –guerrieri Saraceni da una parte e paladini di Francia dall’altra- erano stati costruiti da un puparo di Acireale. Qui nasce il Teatro Siciliano e pian piano lo spettacolo si arricchisce di varietà: c’era la canzonettista, una signora che di solito veniva da Napoli. Era la moglie di Giovanni Grasso, Concetta Carducci. Perché la cantante napoletana’ vi era un gemellaggio con la cultura napoletana, che ancora oggi noi abbiamo. E poi, una siciliana non andava a fare il varietà: era scabroso! C’era la musica e ciò che oggi definiremmo cabaret; la macchetta (Angelo Musco ne faceva una il cui titolo era “A musca”). Non mancava inoltre la recita a soggetto, a braccio, che si chiamava “vastasata”, rappresentativa di piccole scene popolaresche. Infine, lo spettacolo si concludeva con l’Opera dei Pupi, destinata ad assottigliarsi sempre di più per dare spazio al varietà.
La nostra intervista continua suscitando in noi sempre maggiore curiosità, ed il nipote di Giovanni Grasso ci dice che il teatro Machiavelli era frequentato, soprattutto perché gli spettacoli si svolgevano a tarda serata, sia dal popolo, che dagli aristocratici e da intellettuali come Angelo Musco, Luigi Capuana e Nino Martoglio.
Si era alla fine dell’Ottocento e grazie al genio di Nino Martoglio questi intellettuali misero su la prima compagnia drammatica mediterranea. Nino Martoglio era un uomo brillante. Scriveva delle scene ed organizzava le Compagnie, cercando di attutire le piccole rivalità che vi erano tra gli artisti. Riusciva a farsi scrivere dei copioni da Luigi Capuana e dopo diverso tempo riuscì ad ottenere lavori anche da Pirandello, ma Giovanni Grasso era scomparso già da tempo.
Scoperto da Martoglio, l’attore siciliano esordì ne La Zolfara di Giusti – Sinopoli, nella Morte civile di Giacometti, in Pietra su pietra di Sudermann, nella Figlia di Jorio di D’Annunzio, tradotta in siciliano da Borgese, ne La Cavalleria rusticana, che fu- come scrisse il filosofo Vito Fazio Allmayer- il capostipite di tutto il teatro di Grasso: un compare Alfio impetuoso, violento, prodigiosamente drammatico, gesticolante, col basilico all’orecchio ed i pantaloni scampanati.
Cosa rappresentava la Compagnia? Non si aveva un vero e proprio repertorio. Ma ciò che venne rappresentato fu uno spettacolo che aveva avuto un grande successo a Palermo: era la storia di un mafioso, Jachinu Funciazza, che è il protagonista de I mafiosi di la Vicaria di Palermu, primo testo scritto del Teatro Popolare Siciliano. Quando fu rappresentato a Catania, interpretato da Giovanni Grasso nel ruolo di protagonista, ebbe un successo clamoroso, anche per l’argomento. Il tutto si svolgeva in un carcere della Vicaria di Palermo, dove nel contesto di una scena popolaresca, d’ispirazione della vastasata, il protagonista, il mafioso per l’appunto, veniva osannato.
Ma Giovanni Grasso si stacca dalla compagnia fondata da Nino Martoglio per costituirne una propria.
“Si dice che mio nonno –svela il regista Giovanni Grasso- fu stimolato a recitare grazie alla presenza di un grande attore italiano, Ernesto Rossi, venuto a Catania per recitare al Teatro Massimo e conosciuto per caso. Ma la sua vera carriera ha inizio a Roma dove, approfittando di una spedizione per cercare dei fondi che aiutassero gli alluvionati di Modica nel 1902, approda al teatro Argentina. Egli fa la sua prima rappresentazione con lo spettacolo che fu il suo cavallo di battaglia e che recitò sino alla fine: “I mafiosi di la Vicaria di Palermu”, seguito da “La cavalleria rusticana” di Giovanni Verga…”
All’epoca, il teatro Argentina fu deserto poiché nessuno conosceva questa Compagnia siciliana. Ma vi fu un giornalista, Stanislao Manca, che assistette alla rappresentazione e, galvanizzato dall’attore Giovanni Grasso, realizzò un articolo straordinario nel giornale La Tribuna. Il suo pezzo cominciava così: “Chi sono? Da dove sono venuti? Come si sono rivelati artisti tanto vigorosi ed originali? Tutti credevano che on la scomparsa di Rizzotto ( Giuseppe Rizzotto, scenografo e attore 1828-1895) il teatro dialettale siciliano, che si era manifestato entro angusti limiti ed aveva una momentanea voga per il valore di un attore e della sua principale composizione “I mafiosi di la Vicaria di Palermu” anziché per un determinato indirizzo d’arte, si fosse definitivamente spento…”
Ma cosa aveva Giovanni Grasso di così particolare per riuscire a trasmettere al di fuori dei confini siciliani la sua arte recitativa?
“Il suo era un modo di recitare del tutto inedito, nuovo. La mimica, la gestualità, l’espressione erano il suo segreto. Mio nonno ha recitato Otello in siciliano. Quando andò a Londra ebbe un grandissimo successo. Un attore inglese di gran voga per quei tempi, si chiamava Irving, ebbe modo di vedere la sua rappresentazione e si racconta che gli portò in scena gli abiti di Otello giurando che non lo avrebbe mai più recitato. Il successo clamoroso di mio nonno comincia a Roma e poi ha inizio questa sua grande carriera in tutti i teatri del mondo: in America del sud, dove i siciliani avevano consolidato la loro posizione prima di emigrati e poi da nuovi abitanti, a Brooklin e anche in Russia. A San Pietroburgo, racconta Isaac Babel, gli studenti, quando arrivò l’attore, stesero ai suoi piedi le oro pellicce per non fargli bagnare i mocassini leggeri che portava. Fu osannato…”
In una critica risalente al 1981 e riportata su una nota rivista a carattere nazionale viene così delineata la figura del grande artista siciliano: “Giovanni Grasso (1873-1930), un attore siciliano di una genialità emotiva del calibro di Tommaso Salvini. Di lui si ricorda il finale di “Morte civile” di Giacometti, quando il protagonista prende il veleno e muore all’istante. Il sipario resta giù un po’ più del solito, poi si rialza. Grasso è ancora lì, su una poltrona, ancora con un leggero tremito, mentre gli altri attori gli sono accanto per aiutarlo. Qualcosa era accaduto sul palcoscenico; per un attimo era rimasto convinto che fosse morto davvero. Era il più grande genio dell’emozione che si fosse mai visto all’opera…”
Grazie a Nino Martoglio, il grasso si diede anche al cinema e recitò uno dei film più importanti della cinematografia che è “Sperduti nel buio” di Roberto Bracco.
“Il film è una pietra miliare del cinema italiano perché è il primo che possiamo definire realista. Nino Martoglio si inventa il cosiddetto “flashback”…Quando, dopo la guerra, De Sica, Rossellini e Visconti assistettero alla produzione di questo film e videro la grande genialità registica di Nino Martoglio e interpretativa di mio nonno la fecero propria e nacque il neo realismo degli anni ‘50”.
Giovanni Grasso, grande attore e uomo innamorato del palcoscenico! Quando nel 1928 –ci racconta il nipote- restò senza voce, per via delle corde vocali irritate a causa del suo modo di recitare istintivo e non certo accademico, tornò a Catania per un’ultima rappresentazione de “I mafiosi di la Vicaria di Palermu”. Era il 1929, qualcuno lo criticò perché la voce non era più quella dell’attore conosciuto un tempo. Forse umiliato da certi atteggiamenti dei critici, che avevano dimenticato la sua fama, decise di non più vivere al di fuori del palcoscenico. Si spense una notte a causa di un ictus.
Social Profiles