“Il segreto degli affreschi padovani è da cercare soprattutto nella visualizzazione in termini religiosi dei personaggi “senza nome” del suo tempo, ma che rappresentano rigorosamente le scene secondo una sequenza che tiene conto dell’andamento dei testi sacri, se è vero che il “coro” dei chierici, durante la lettura dei libri liturgici, segue gli affreschi secondo la progressione numerica delle scene.”
Sono trascorsi all’incirca settecento anni dalla conclusione degli affreschi della Cappella degli Scrovegni, nella quale Giotto ha realizzato il ciclo di 103 riquadri dedicato alla vita di Gesù e considerato il capolavoro assoluto di Giotto e dell’arte del ‘300 in Europa. Proveniente da Assisi ove “dipinse –ha scritto il Ghiberti nei Commentari- quasi tutta la parte di sotto”, ossia la Basilica Superiore (1297), Giotto arriva a Padova nel 1303, quando la fabbrica della Cappella dell’Arena era ancora in piedi, verrà chiusa intorno al 1314, anche se a quella data l’acquirente non vi aveva stabilito la sua dimora. L’area era stata acquistata nel 1300 da Enrico Scrovegni per la costruzione di un edificio in ricordo del padre Reginaldo Scrovegni, che Dante, con giudizio severo, collocherà nel girone degli usurai.
Giotto avvierà gli affreschi nel 1305 nell’Oratorio-Chiesa e pare che si sia dedicato solo alla realizzazione del grande ciclo, dubitandosi che sia stato anche l’architetto dello stesso manufatto. Infatti, se il progetto fosse stato suo, non si capirebbe perché abbia fatto modificare porte e finestre della Cappella, abbattendo l’arco trionfale onde acquisire quello spazio, di ideazione gotica e necessario alla collocazione delle sue storie, che diverranno subito famose per il loro stile contratto e per l’ordine scenico delle figure.
Invero la grande opera di Giotto ha trovato immediati consensi fra i suoi contemporanei, nonostante abbia impresso al ciclo pittorico una nuova e rivoluzionaria impronta stilistica, proprio attraverso il superamento del bizantinismo veneto e del gotico internazionale, che a Padova erano di casa, evidenziando nelle sue storie, non più bloccate ma in movimento, una sequenza religiosa in quanto umana. Con il risultato che, vinto l’astrattismo bizantino, modificherà il gotico imperante attraverso l’accentuazione di una decisa “tattilità”- dirà i Berenson- superando la sua stessa visione idealistica e classica del persiodo pisano, peraltro persistente nell’architettura e nell’ambiente padovani del Trecento.
In effetti Giotto si serve di un linguaggio parlato e in diretta, come aveva fatto Dante con il suo “visibile parlar”, per costruire la struttura sintattica improntata ad un realismo espressivo, in grado di comprendere gli sviluppi del suo tempo. Ed è in questo che li viene rimproverato di “cacciare in mezzo alle sacre rappresentazioni tutta una gente intrusa e senza nome- come gli diceva il suo maestro, il Cimabue- e che ciascuno tira a sé per suo conto l’attenzione di cristiani”. Gli veniva insomma addebitata una parlata “troppo personale, troppo domestica e confidenziale”, sempre secondi il Cimabue, in quanto diretta a uomini senza importanza, anche se attenta a non disturbare i sentimenti di quei fedeli che seguivano e recitavano le sacre rappresentazioni.
Il segreto degli affreschi padovani è da cercare soprattutto nella visualizzazione in termini religiosi dei personaggi “senza nome” del suo tempo, ma che rappresentano rigorosamente le scene secondo una sequenza che tiene conto dell’andamento dei testi sacri, se è vero che il “coro” dei chierici, durante la lettura dei libri liturgici, segue gli affreschi secondo la progressione numerica delle scene. Talché si conferma che la pittura di Giotto è una scena unitaria sia rispetto ai tempi della storia che alla visione sacra, dal momento che il Maestro spettacolarizza e attualizza –diremmo oggi- le sacre scritture con riferimento ai popolani del proprio tempo, imprimendo un concetto nuovo alla storia, basato sulla percezione soggettiva del tempo. Sicché la visione non è soltanto valida per i contemporanei degli eventi realizzati, ma per gli usufruitori dei nuovi tempi.
Quando il Cennini affermava che Giotto era da considerare l’artista che “rimutò l’arte del dipingere di greco in latino e ridusse la moderno”, dimostrava di avere intuito che Giotto introduceva nella scena pittorica quel nuovo concetto di storia, né ideale né meccanico, che “satollerà migliaia” e che “surgerà dove lo usato tramonterà” (Dante), in quanto continua modificazione e non già finalismo progressista, secondo la teorizzazione prospettata dal Vasari. E’ infatti convinzione critica dei nostri tempi che la visione progressiva della storia non tiene conto delle modificazioni e dei ritorni che si producono nel tempo, ma che prende in considerazione solo le tipologie del dramma, stilisticamente determinate, quando il dramma non c’è più, essendo intervenute nel frattempo le modificazioni delle originarie passioni.
Oltretutto sul piano dell’arte la visione tridimensionale giottesca, spazializzata e concepita con un ritmo narrativo, aveva bisogno di pareti che invece mancavano alle navate verticalizzate delle chiese gotiche e ove gli spazi vuoti prevalgono sui pieni, per cui la sua espiazione pittorica, recepita anche dal sito architettonico, troverà un immediato riscontro nelle aspettative delle confraternite e dei committenti ecclesiastici. Sotto il profilo ostensivo di quelle realizzazioni, che erano di ordine religioso, ma che recavano un’impronta di ordine civile, per non dire politico, si conferma che è stato Giotto –vissuto in comunanza con la fioritura del linguaggio letterario parlato da Dante, suo contemporaneo e ammiratore- ad avere avviato l’accennato concetto della soggettività della storia e dello sviluppo della cultura poliespressiva e modificatrice del tempo. E perciò ad avere richiamato l’attenzione della borghesia fiorentina emergente sulle necessità politiche di tramutare l’antica cerchia urbana nella rinnovata dimensione della città-stato, alla quale Firenze stava legando la sua ascesa politica ed economica.
Oggi si concorda che la civiltà umanistica è stata originata proprio dalle concezioni nate in quegli anni, di cui Giotto e Dante erano gli assertori più decisi. D’altra parte avrà concorso la visione politica di Giotto ad avviare la caduta del feudalesimo e a sviluppare una nuova dimensione urbana, in cui far coesistere l’intraprendenza manageriale e il senso della storia, nell’ambito del trinomio arte-religione-politica. Perché se Giotto, nelle espressioni e nella consistenza della figura umana, non ha trascurato di rilevare gli stati d’animo e i sentimenti dell’uomo nuovo fiorentino, calato nel suo tempo imprenditoriale; è anche vero che Giotto ha trasmesso agli uomini che verranno, al pari di Dante, la visione sul modo di essere e di sentirsi uomo, compiuto e autocosciente, secondo un concetto che non contraddice il nostro modo attuale di interpretare il binomio arte-vita.
Luigi Tallarico
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