Gesualdo Bufalino “Vivi una ragna di parole…” “La vita non sempre fa male…”

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Maria Cristina Torrisi Editore e Direttore di Nuove Edizioni Bohémien

Maria Cristina Torrisi
Editore e Direttore di Nuove Edizioni Bohémien

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Memorie di un personaggio
A cura di Rosalda Schillaci

 

(Approfondimento dell’articolo sul numero dell’Edizione 2020 dell’Unicum – lo Speciale di Natale – in uscita online l’8 dicembre 2020)

 

Gesualdo Bufalino (Comiso, 15 novembre 1920 – Vittoria, 14 giugno 1996) è uno scrittore da sfumature semantiche, esuberanti e barocche, che lo collocano tra i grandi della letteratura del Novecento Italiano accanto a Landolfi, Gadda e Manganelli. Una numinosa presenza: virtù di una via lessicale e sintattica, ora per creare, ora per straniare, in un curatissimo ritmo, nella sontuosa prosa infittita da versi nascosti, lussuose sprezzature di memorie letterarie. […]
Ha vinto in prestigiosi agoni letterari, tra i tanti: il Premio Campiello con il romanzo “Diceria dell’untore” e Il Premio Strega con “Le menzogne della notte”.

 

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È un privilegio, per tutti noi, conoscerlo attraverso apparati, libri, dove si è cancellato molto. Entrare nella bottega letteraria, dove scrivere e correggere è incontentabile nel furore scrittorio. Ecco la cura, la cifra stilistica, tra bozzi e abbozzi, linee di forze verbali, coordinate dell’immaginazione dell’opera Bufaliniana: umiltà, superbia, paura, incontentabilità, ammutinamento nei confronti della vita. Ed è ormai sessantunenne, quando cede alle insistenze dell’amico Sciascia e di Elvira Sellerio, e pubblica il suo primo libro “Diceria dell’untore”, ponendo fine a una revisione decennale.
Un corpo a corpo, una specchiata e riflessa poetica manieristica della complicazione ed ecco il Gesualdo Bufalino mago del falsetto, del pastiche. L’autore crea una parata di maschere intense nel riquadro di un componimento, il cui sfondo è un telone di pupi, a cui affida una parte segreta: enunciazione lucida di ragioni psichiche dentro un quadro di ironia e controcanto.
Un’ingenua, declinazione di vitalità, argutamente si manifesta nel dotto stilista. Un simile arsenale di complicazioni, mai fini a se stesse, ma indispensabili a modulare in rebus il tema dello scisso e del doppio, tra l’essere e l’apparire, tra verità e menzogna, la scissione dell’autore con l’altro che lo abita e con cui confligge.
Con abilità linguistica, la prosa poetica di Gesualdo Bufalino, si muove attraverso l’asse diacronico della nostra lingua, restituendo modi sintattici, forza, bellezza, in ogni struttura profonda costruita intorno al narratore e ai personaggi.

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All’amico Leonardo Sciascia, Bufalino concede un’intervista pubblicata da “L’Espresso” il 1° Marzo 1981, in cui cosi risponde alla seguente domanda: “Diceria dell’untore da quale esperienza è nato, per quale necessità?”
[…]

Una parola, turgida, alta, vagheggiata e ricercata, scelta con cura maniacale. Il libro scelto da Bufalino per un’isola deserta sarebbe stato proprio il vocabolario, custode del verbum e potenziale contenitore di tutti i libri. Strumento di cui si serve per mettere a fuoco, dense e incisive similitudini e metafore.
“Vivi una ragna di parole e ti ci avvolgi dentro, quando una ne basterebbe, pronunziata in silenzio, qui in ginocchio, accanto a me. Soccombere ti bisogna per vincere. Chiudere gli occhi per poterti svegliare” fa pronunciare a padre Vittorio in “Diceria dell’untore”.
Per lui un libro pubblicato può instillare bene, ma anche fare male se apre difficili porte di pietra vietate solitamente agli altri. Quando salta muretti e va in una vigna e rubare innocenti grappoli, per imparare il peccato. Divora i libri e ogni giorno s’ingegna per leggere qualcosa di nuovo: “Rubo in una bottega di pescivendolo un fascio di giornali da avvolgere. Sono scoperto, svergognato. Soprattutto perché avrei potuto averli tranquillamente in regalo. Devo concludere che il mondo della scrittura m’appariva precocemente appetibile e proibito, connesso comunque a un’infrazione, a una pratica furtiva.” Confessa ancora nell’intervista sopra citata.
La busta aperta, è una delle metafore preferite dal Bufalino, con cui spesso, con studiate ellissi, non svela.
[…]
Bufalino battezza i libri come “i paradisi dipinti”. Così come per Pirandello e Svevo, la scrittura si colloca nella dimensione terapeutica, anche per lui è una via da percorrere: “una distrazione dal pensiero della fine” nel “canovaccio dell’inevitabile vita”. “Si scrive per guarire se stessi, per sfogarsi, per lavarsi il cuore, per dialogare con uno sconosciuto lettore…”. I libri sono i veri amici, per questo alle “ragioni dello scrivere antepongo le sole ragioni del leggere”.

Comiso, diventa il centro del suo mondo, scandito da abitudini, da cui si allontana rare volte, dove insegna, in cui si asserraglia nella monade di una tana e a cui declina parole d’amore:
“La tua voce è un mare che si calma / a una foce di antiche conchiglie, / dove s’infiorano mani e la palma / nel cielo di meraviglie. / Sei anche un’erba, un’arancia, una nuvola… T’amo come un paese”.
[…]

Si rimane affascinati dalla complessa venustà Bufaliniana profusa nella prosa e nella poesia che danno vertigine. Un trasalimento, che affabula, nel linguaggio del parlato uguale allo scritto è chiuso per sempre sotto una lapide con l’epitaffio “Hic situs, luce finita”: c’è una tomba presso il cimitero di Comiso, entrando a destra lungo la fila 25 dove riposa il professore Gesualdo Bufalino. Lo scrittore, poeta, aforista italiano, finissimo traduttore, morto a causa di un drammatico incidente stradale il 14 giugno 1996, nella strada tra Comiso e Vittoria mentre accompagnato da un amico, tornava dalla moglie. Così denota la cronaca dell’ultimo giorno.
Così le riflessioni gonfie di amarezza, la ricerca mia per disarmare la morte. La strada percorsa mille volte, è stata la mano tranciante del puparo, per un uomo che così si era raccontato: “mi ricordo che un giorno a Colonia, nel ’64, durante un viaggio in macchina con un amico, fui colto da un così straziante crepacuore di fronte a un cielo che parlava una lingua lontana che rifuggii verso il Sud a precipizio, sentendo a ogni pietra miliare che mi ci avvicinava una vampata di felicità”.
L’assolo letterario è incline a un universo verbale in cui le improbabili e care ombre, incontrate e prese a braccetto lievemente, si possono salutare con nostalgia. Ed eccolo il finale esorcizzante “il distacco da una materia dolente,” “il luogo dell’azione una Sicilia di sogni, tra fiaba e orrore, con personaggi estranei ai suoi modi e miti, finiti qui per caso o per occulti richiami, ma sempre da ospiti fuggitivi: personaggi eccezionali, com’è eccezionale chiunque stia per morire”.
Concludo, avvinta da dolce melanconia, con i versi tratti da: “Amaro miele”. La raccolta di poesie, pubblicata postuma, che racchiude il lavorìo dell’anima tra: incantesimo, visioni oniriche e paura; rivela la parte intima del professore Gesualdo Bufalino e lo consegna – a noi tutti – nella suggestione dell’immensa beltà letteraria e umana.

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Risarcimento.

“La vita non sempre fa male, / può stracciarti le vele, rubarti il timone, / ammazzarti i compagni a uno a uno, / giocare ai quattro venti con la tua zattera, / salarti, seccarti il cuore / come la magra galletta che ti rimane, / per regalarti nell’ora / dell’ultimo naufragio / sulle tue vergogne di vecchio / i grandi occhi, il radioso / innamorato stupore / di Nausicaa.”
E ricordo evocativo sia: con “innamorato stupore”, con immutato affetto, l’andare tra la vita oltre la morte e la poesia eterna, nel centenario della nascita di Gesualdo Bufalino.