A cura di Maria Pia Basso
Le notizie si rincorrono e si moltiplicano. Si inorridisce, si resta esterrefatti. Ieri abbiamo appreso che una madre ha accoltellato il figlio undicenne, per di più disabile. Magari oggi toccherà ad un bimbo ancora più piccolo e domani? Domani continueremo ad inveire contro queste azioni infami, illogiche, la cui esistenza vorremmo non dover mai apprendere. Invece sembra prendere sempre più piede questo modo “spicciolo” di risolvere scaramucce e beghe familiari di cui fanno le spese proprio quei figli dai quali, con orgoglio, ci facciamo chiamare “mamma” e “papà”. Ogni volta che si picchia un bambino si assiste alla sconfitta dell’educazione, all’annullamento del concetto di “sacralità” del corpo e alla sua integrità. Il più forte che prevarica sul più debole, esercitando una brutalità che trae origini da malcontenti personali, spesso crisi depressive. Stati di disagio in cui versa il “carnefice” e che, vigliaccamente, trasla su chi, inerme, incapace di difendersi, incredulo, soccombe miseramente.
Compiendo un passo indietro rispetto agli eccessi riportati, possiamo anche ben immaginare che si ricorre ad atti meno eclatanti, ma non per questo tollerabili o giustificabili. Come quando volano scappellotti o aspri rimproveri verso atteggiamenti dei figli che ben potrebbero essere risolti ricorrendo ad un sano confronto.
E’ difficile armarsi di pazienza ed affrontare il piccolo in altro modo? Non credo si debba necessariamente arrivare ad alzare le mani! Lo si fa perché, magari, è questa l’educazione ricevuta dai nostri genitori, perpetrando una pratica sbagliata perché non si vuol comprendere che ci si deve opporre ai comportamenti aggressivi, senza giustificarli. Lo si fa perché si perde il controllo con troppa facilità ed è più semplice non porsi dalla parte del bambino per capire le ragioni che lo hanno indotto al comportamento erroneo. Facendolo si medierebbe, invece, tra l’essere adulto e, quindi, equilibrato e l’essere infantile, per cui istintivo e meno in grado di controllare la propria collera. I genitori che continuano a punire il figlio, rimandano allo stesso un’immagine negativa, che farà propria perché non è ancora in grado di costruirsi un’ identità. Lo fa, confidando su ciò che i genitori proiettano. Nasce così il “bambino cattivo”, che compie solo marachelle; che non sa far altro che disastri. Sembra complicato, a volte, ma riuscire a comprendersi attraverso le parole è rassicurante per tutti. Il genitore manifesta la propria delusione, il figlio comprende che una determinata azione non deve essere compiuta e ne capisce il perché. Sono le reazioni pacate che educano, non gli eccessi di ira incondizionata. Devono porsi dei limiti che contengano l’impulsività del piccolo e lo guidino nel mare in burrasca. La sua è una personalità che va componendosi e per farlo deve conoscere fin dove può spingersi. I “ no” che cerca, costituiranno gli strumenti per orientarsi e per non annegare, a patto che le proibizioni siano circostanziate. “ Non devi far questo perché…”. Il piccolo vuol comprendere: è per lui un momento . di crescita e un chiaro segnale di attenzione da parte dei suoi genitori. Non si sente trascurato come quando gli si concede di fare quello che gli pare. In quel caso annaspa perché percepisce il sentimento dell’indifferenza. E a chi piacerebbe venire trascurati dalle persone che amiamo?
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