Recensioni ed Eventi/ Cinema
A cura di Vittorio De Agro’
“Time out of mind –Gli Invisibili” è un film del 2014 scritto e diretto da Oren Moverman con Richard Gere.
Basta poco per cadere e ritrovarsi con il “sedere a terra”. La crisi economica sta distruggendo la classe media e creando nuovi poveri. La soglia di povertà si è allargata al tal punto che i Centri Caritas sono “frequentati” da persone insospettabili. Oggi giorno passeggiando per le nostre città vediamo decine di barboni che dormono alla peggio su cartoni in un angolo delle strade. Di notte le stazioni diventano “alberghi” per ripararsi dal freddo.
Ai nostri occhi queste persone sono degli invisibili, non hanno un passato, un presente né un futuro. Vivono ai margini della nostra società eppure un tempo ne facevamo parte.
Una tragedia cittadina che si rinnova ogni giorno quando leggiamo sui giornali di barboni morti per il freddo, l’inedia o tristemente vittime di violenze subite da pseudo gruppi politici, ma in vero, criminali a sangue freddo.
La crisi è partita in America e i”danni collaterali” sono stati più forti e devastanti.
Il numero di disoccupati è aumentato in maniera vertiginosa. La bolla immobiliare ha portato migliaia di persone a perdere la propria casa in breve tempo non potendo permettersi di pagare il mutuo. Molte famiglie si sono rotte e molti uomini incapaci di reinventarsi un lavoro sono scivolati nella solitudine oltre che nella povertà.
Ma chi sono veramente i barboni? Come passano le loro giornate? Dove vivono, cosa mangiano?
A tutte queste domande cerca di dare una risposta, il regista Movermann con il suo terzo film portandoci a New York presentandoci la dura e cinica realtà della città che non dorme mai.
E’ un viaggio fatto attraverso lo sguardo e le azioni Richard Gere per l’occasione divenuto barbone. Lo so è difficile immaginare l’ex sexy simbol degli anni 80 con queste sembianze. Eppure la telecamera segue Gere nel suo girovagare per la città, bevendo birra, cercando disperatamente un luogo dove dormire e qualcosa da mangiare.
Un film minimalista e povero nelle parole, dove le immagini sono la vera forza del film.
Sappiamo poco di questo barbone, lo spettatore scruta la sua vita, osserva la sua sofferenza e riflette sulla sua misera condizione. Con lui conosciamo la realtà sconosciuta dei centri di accoglienza che in vero sembrano caserme dove vigono regole di comportamento rigide e severe. George questo è il nome del barbone, un tempo aveva un lavoro, una casa, famiglia, ma ha perso tutto. È lo stesso George a parlarne in maniera vaga e confusa a un amico barbone durante le loro giornate passate a chiedere l’elemosina per strada.
George ha una figlia che lavora in un bar. Non hanno nessun rapporto eppure vigila su di lei da lontano.
George non accetta la sua condizione di barbone, la sua mente è ancorata alla vita che fu. Vorrebbe lavorare e possedere una casa, ma per fare ciò deve avere per la burocrazia americana almeno un codice fiscale. Come può un barbone avere un codice fiscale se non ha neanche un certificato di nascita?
I contro sensi di una società da una parte indifferente a chi ci sta intorno e dall’altra parte impongono regole illogiche.
Più che un film sembra un docufilm con l’intensa e forte interpretazione di Richard Gere.
L’attore americano si cala con tutto se stesso nel personaggio, dandoli anima e profondità, ma non riuscendo però fino in fondo a convincere.
Il barbone Gere in confronto al clochard che frequenta la stazione Termini sembra un lord.
L’eleganza e il carisma di Gere in qualche modo nuoce al film, rendendolo meno vero e coinvolgente.
Il film concentrato sul rapporto tra il protagonista e New York funziona solo a momenti.
La sceneggiatura è nel complesso monocorde. Non regala particolari guizzi creativi o sussulti emotivi diventando cosi un mero susseguirsi di accadimenti senza scaldare il cuore dello spettatore. I pochi dialoghi sono resi vivi e partecipati dalla bravura degli interpreti.
La regia è rimasta a metà del guado tra documentario e cinema, non riuscendo a prendere d entrambi i generi, il meglio. E’ un opera coraggiosa, ma priva del quid narrativo.
Un finale che genera nello spettatore la speranza che chi anche ha perso tutto, possa esistere la possibilità di ricominciare e che l’amore di una figlia nonostante tutto vince sull’indifferenza.
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