Recensioni ed Eventi
Arte
A cura di Antonino Leotta
Venerdì 28 giugno verrà inaugurata -nella Galleria del Credito Valtellinese in Piazza Duomo di Acireale- la mostra antologica del nostro pittore acese FRANCESCO PATANE’ (1902-1980).
Ritratti, paesaggi e nature morte caratterizzano la vasta produzione nel “nostro” artista. Oltre trecento le opere realizzate, alcune delle quali hanno già segnato un percorso espositivo itinerante che è iniziato al Castello di Calatabiano il 10 novembre del 2018 con “Autoritratti”. A seguire, nel dicembre scorso, “L’idea di classicismo” al Museo Archeologico Regionale di Centuripe che ha proposto un legame relazionale di alcuni pezzi del museo con trentatre opere dell’artista in chiave iconografica.
“Un’amicizia in arte” il tema di un altro incontro con le sculture del Pirrone al Museo Giuseppe Pirrone di Noto e, infine, il dialogo tra arte e letteratura con il verismo verghiano, ispirato al naturalismo, al Museo dell’Immaginario Verghiano a Vizzini.
Nella prima metà del Novecento anche la Sicilia si unisce al distacco dallo stile ottocentesco proponendo nuove forme di sapore espressionista. Il Patanè, formato a una severa scuola di classicismo, si lascia, talvolta, conquistare da innovative esperienze. Conferendo un coinvolgente fascino alla dolcezza dei suoi colori. Che continuano la magia del racconto della vita attraverso personaggi e paesaggi. E soffermandosi su particolari di volti e di siti che esprimono stati d’animo e suggestivi aspetti esistenziali.
Tra le sue opere si inserisce una diffusa presenza di interventi con tele ed affreschi in vari edifici sacri del nostro territorio. Direi che, accanto ai suoi “maestri” dell’arte, Francesco Patanè accolse un singolare “maestro dello spirito”. C’era, infatti, al Seminario di Acireale, un direttore spirituale che coltivava un particolare interesse per l’arte sacra. Monsignor Michele Cosentino accompagnò nel cammino dell’arte nel sacro il nostro autore. qui soffermarmi su una particolare opera che intende dare valore alla mia affermazione. Nella Cappella principale del Seminario Vescovile, al centro della parete dell’abside, c’è una grande tela che raffigura un trittico: Gesù, Giuseppe e Maria. La figura centrale è il Gesù che presenta il suo Cuore. Un Cristo con una corona regale, attorniato da una gioiosa e armoniosa schiera di angeli. Alla sua destra la Madre. La Vergine Maria nel su consueto stile di umiltà. Con le braccia che sembrano stringere ancora il suo piccolo ma che esprimono quella perenne supplica di amore al suo Figlio-Signore per tutti gli altri figli di tutti i tempi. Alla sinistra il mite Giuseppe che regge quel bastone fiorito che lo ha segnato come sposo di una donna sempre vergine e amorevole custode del Figlio di Dio fatto uomo.
Il trittico ha una costante azione formativa nei confronti degli aspiranti al sacerdozio. Secondo la consuetudine codificata del Seminario, ci portavamo quattro volte al giorno in Cappella: all’alba per la meditazione e la celebrazione Eucaristica; poi, immediatamente dopo il pranzo, per una amorevole visita; al vespro per il Rosario seguito dalla benedizione eucaristica e, prima di metterci a letto, per l’esame di coscienza e per il saluto conclusivo della giornata. Contemplavamo quel trittico, quindi, per diverse ore al giorno e, personalmente, per nove anni consecutivi. Nel fiore della giovinezza.
Ho sempre sostenuto che un fotografo cattura una immagine. E la fissa. Anche se l’immagine in sé o l’estro con cui viene ripresa le conferisce un originale dinamismo, quell’immagine rimane sempre uguale a sé stessa. Un artista pittore, invece, costruisce millimetro per millimetro la sua “creazione”. E la libera per renderla e proporla sempre viva e palpitante. Quella produzione è un atto di liberazione che lancia in un tempo senza tempo una persona o un sito. In perenne comunicazione con chi si ferma ad ammirare. Perché si fa compagna di viaggio nelle alterne fasi della vita che minacciano la solitudine.
Per noi seminaristi raccolti in un luogo sacro recintato e avvolto nel silenzio per molte ore della giornata, Cristo era l’annuncio dell’amore del Padre. E quel “Cuore di Gesù” era la chiave di quell’opera di amore che doveva continuare attraverso l’azione dei consacrati. Maria, poi, era colei che portava il Figlio all’umanità e quel gesto dovevano ripeterlo i suoi sacerdoti. Giuseppe, infine, con la sua riservata e silenziosa presenza, restava anche il simbolo di un producente celibato.
Nei pressi di quel trittico c’erano impressi a chiare lettere diversi scritti. Uno di questi diceva: “Silentium. Noli esse quasi homo qui tentat Deum”. L’espressione riporta il versetto 23 del capitolo 18 del Siracide o Ecclesiastico (da distinguere dall’Ecclesiaste o Qoelet). Il versetto dice: “Prima di fare un voto prepara te stesso, non fare come un uomo che tenta il Signore”. Direi che ogni chierico doveva meditare a lungo. Ascoltare e pregare. Prepararsi adeguatamente per arrivare alla convinzione che la scelta del servizio sacro -con annesso il celibato- non era una scommessa con Dio. Ma con se stesso. E più che un impegno a denti stretti era la possibilità di un incontro. Un incontro di amore.
Questa mia esperienza conferma il compito affidato alla mano e al pensiero di Francesco Patanè. Che è stato chiamato a partecipare attivamente, anche attraverso un pennello, a una forte azione formativa. Teniamo presente che, al tempo della realizzazione di quell’opera, era molto in uso, tra la pietà cristiana, quella invocazione: “Gesù, Giuseppe e Maria, vi dono il cuore e l’anima mia”.
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